Dossier:

Il noir americano nel cinema di Jean Pierre Melville a cura di Luisa Carretti

Verso una definizione dell'universo melvilliano

Jef e Silien a Parigi

Si è già fatto riferimento all’intento del regista di non legare le sue storie alla realtà specifica del mondo della malavita parigina e agli espedienti da lui messi in atto perché questa universalizzazione avesse luogo. Si passerà ora all’analisi del   modo in cui l’eroe melvilliano si cala nell’ambiente instaurando con esso un rapporto di scambio.
  Guardando i film di Melville saremmo spesso spinti a pensare che lui abbia voluto girare delle lunghe “flânerie” per omaggiare la città nella quale ha sempre vissuto e che amava in modo assoluto.
Una Parigi che, come richiede la tradizione del noir, si scompone, si frammenta in angoli di strada, piccoli bar, locali notturni e stazioni della metropolitana, per riconnettersi nella grande cartina della metropolitana sulla quale il commissario osserva ansioso il pedinamento di Jef, sperando che vada a buon fine. Se in Le Doulos (probabilmente come reazione alla scelta attuata nel suo primo noir, Bob le flambeur), Melville fa sì che lo spettatore perda le coordinate dei luoghi nei quali si muove l’eroe, (fornendo un’unica vaga cartina del luogo in cui Maurice ha nascosto i gioielli) in Le Samouraï, anche grazie alle scelte di fotografia, Melville non perde occasione per fornire informazioni esatte circa il luogo in cui Jef si trova, senza però rischiare di far percepire il suo universo come ancorato alla realtà, anzi dando allo spettatore la sensazione di trovarsi in un luogo senza più tempo né spazio. Così abbondano inquadrature in cui sono leggibili i nomi delle fermate della metropolitana, stazioni ferroviarie senza però che queste condizionino la nostra percezione della realtà raccontata.
Entrambi i personaggi si muovono per le strade con molta disinvoltura, sembra che conoscano gli angoli più reconditi di un luogo che li protegge (pensiamo alla sequenza della metropolitana per Jef) o riserva loro delle brutte sorprese (nel caso dell’incontro fra Silien e la polizia). Per entrambi l’ambiente esterno sembra essere meno insidioso degli interni, in particolare delle loro case/rifugio. E’ all’esterno, in un continuo girovagare, che loro riescono ad affermare il proprio potere sugli altri assimilando tutte quelle informazioni necessarie per anticipare l’altro e sconfiggerlo.
 Gli interni sono invece i luoghi in cui si tramano complotti alle loro spalle: la cella nella quale Maurice pagherà la morte di Silien, come per Jef il commissariato e la casa di O. Rey in cui i poliziotti e i malviventi si organizzano per una caccia all’uomo che ricorda tanto quella ingaggiata contro il mostro nel film di Fritz Lang, M, il mostro di Düsseldorff.
La loro stessa casa diventa uno dei luoghi più inaspettatamente pericolosi. Per ben due volte Jef vedrà violato il suo appartamento da rappresentanti di entrambi i mondi che proveranno ad incastrarlo. Per ben due volte lui sarà costretto a difendere questo luogo che dovrebbe essere inviolabile, in quanto rifugio nel quale si nasconde per meditare e ricaricarsi prima della prossima missione.
  Interessante notare come man mano che il percorso di ascetizzazione si compie, anche la casa dell’eroe si trasforma.
La casa di Silien potrebbe essere paragonata alla casa di O. Rey per gusto e dimensioni. E’ una grande villa piena di suppellettili di stile orientale e moderno, un luogo ancora troppo vicino alla concezione classica dell’eroe del noir che concretizza l’ibridismo del personaggio di Silien. Ma resta un dubbio: quello che il regista ci permette di vedere è il luogo in cui Silien progetta di vivere, il simbolo del cambiamento nel quale però tutto sembra sistemato in modo da farci percepire questo grande salone, come un tempio funerario innalzato in onore del nostro eroe (e non sarebbe tanto sbagliato pensare che quel mondo senza polizia né malviventi nel quale Silien si vuole trasferire, sia un al di là di cui la sua casa a Ponthierry diventa la porta d’accesso). Non conosciamo però il luogo in cui fino a quel momento Silien ha vissuto e questo ce lo rende ancora più ambiguo, nella misura in cui non ci viene concesso di entrare nel luogo che in ogni caso ci avrebbe aiutato a definire la sua personalità. Al contrario la stanza di Jef è l’espressione di quel mondo disumanizzato che Melville ha voluto raccontarci.
Privato di qualsiasi ornamento, l’appartamento è l’essenzialità assoluta: un letto senza lenzuola, una vecchia poltrona, un camino usato per nascondere i soldi, una cassettiera vuota (soltanto uno dei cassetti è usato per contenere il mazzo di chiavi che Jef usa per rubare le auto), un piccolo tavolo su cui è poggiata la gabbia, un armadio in cui l’unica cosa che viene conservata è il suo impermeabile sporco di sangue e un comodino sul quale si trova il telefono. Nient’altro in questo luogo in cui tutto è grigio tranne il petto rosso dell’uccellino in gabbia. Qui Jef si rifugia dopo ogni missione per stendersi sul letto, fumare le Gitane (che con l’acqua Evian sono le uniche cose che possiede) e meditare prima di iniziare un’altra missione. Un luogo che per la sua essenzialità sembra ancora più sacro del salone/tempio di Silien e in cui le irruzioni di polizia e malviventi vengono percepite come delle vere e proprie violazioni dell’interiorità stessa del personaggio. 

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