Il reale va bene, l’interessante è meglio.
(Stanley Kubrick)
This is not America.
(David Bowie)
Il padre Vincenzo Leone, infatti, altri non era, dietro la pratica allora comune dello pseudonimo, che quel Roberto Roberti regista di tanti melodrammi muti (e anche di qualche rudimentale western): storie d’amore e dolore, passione e sofferenze dall’afflato liricheggiante e dal passo spesso incerto, sospeso fra una fedele rievocazione storica e una costruzione invece magniloquente e pomposa, tendente all’enfasi teatrale e all’arte gridata dei saltimbanchi da piazza, che la recitazione degli attori e le soluzioni di regia volentieri tenevano come modello.
Storie sicuramente appassionanti per gli spettatori del tempo, meno smaliziati e meno esigenti di oggi, che ritrovavano con piacere la serialità e le caratteristiche già conosciute dei feuilleton del secolo appena trascorso. Per poche lire, inoltre, si potevano dimenticare gli affanni quotidiani e le meschinità della vita reale e - nel buio di una sala gremita, versione moderna del focolare attorno al quale raccontare, come in una sorta di rito ecumenico, favole – sognare di principi azzurri che esistevano per salvare altere popolane o di bellissime nobildonne trepidanti al pensiero del marito disperso in chissà quale guerra.
Storie, lo si capisce, che avranno ben poco a che fare col futuro cinema di Leone ma che, a osservare con maggiore attenzione, contenevano elementi sicuramente ispiratori, quando non proprio anticipatori: un assoluto, volontario distacco critico dalla realtà in cui i personaggi si trovano ad agire, realtà invece riprodotta dalla puntigliosa rappresentazione esteriore di essa; una realtà, cioè, tautologica, utile più come sfondo decorativo dell’azione tumultuosa e non tanto rete metaforica di simboli e valori aggiunti né espediente necessario per lanciare messaggi o creare paragoni e agganci con l’attualità. O, ancora, l’irreale manierismo delle vicende raccontate o la decisa solennità dello sguardo del regista e, di conseguenza, la caratterizzazione forte, gestuale di attori che evidentemente non devono dare vita a personaggi complessi e compiuti ma devono soltanto interpretare tipologie di personaggi già consolidati dalla tradizione e perciò già noti.
Storie, dicevamo, di quel tale Roberto Roberti grande amico delle star dell’epoca, quello stesso Roberto Roberti che, involontariamente o meno, avrebbe fornito i contatti giusti affinché il figlio potesse intraprendere la sua stessa, sconsigliatissima carriera e che, a giochi ormai fatti, sarebbe stato affettuosamente ricordato da Leone con l’omaggio nominale che costituì la sua abilmente posticcia credenziale verso il successo (Bob Robertson, ovvero dall’inglese, come sarà noto, “figlio di Roberto Roberti”).
Certo non si può dire che Sergio Leone si sia fatto le ossa sui set del padre (anche se nel 1941 era già presente su quello di La bocca sulla strada), vuoi perché era oggettivamente troppo piccolo vuoi perché forse il padre tendeva a tenerlo lontano da un mestiere sicuramente emozionante e gratificante ma, per quanto almeno ne sapeva lui, discontinuo dal punto di vista del rendimento finanziario e troppo soggetto all’alea dei produttori e del fattore pubblico.
È altrettanto certo, però, che fin da bambino Leone ha respirato quest’atmosfera fatta di magia onirica e di brutale realismo produttivo-commerciale, un’atmosfera che lo avrebbe segnato anche a livello primario quando si sarebbe trovato a dover disegnare personaggi e a studiare trame che, di fatto, rispecchiavano la sua posizione ideologica di uomo prima che di artista.
E, fondamentalmente, dalle sue opere traspare una filosofia di vita improntata sul disincanto di certe illusioni, gradualmente o meno andate perdute o ribaltate nella prospettiva, e su un fatalismo pessimista che non può non avere le sue basi nella precoce esperienza cinematografica del padre e magari nei resoconti sull’ambiente che costui forniva alla famiglia, oltreché nel periodo storico in cui la sorte – sì, forse la colpa, o il merito, erano da attribuire sempre a lei – l’aveva scaraventato a vivere.
Com’è possibile notare, la propensione lirica di Leone e il suo gusto per le coreografie barocche hanno più di un punto di contatto con il cinema ‘operistico’ di Luchino Visconti: ma se la biografia e le ossessioni personali del regista milanese si traducevano in un’acribia registica tutta dedicata alla rappresentazione colta dello sfarzo di una classe aristocratica in avanzato stato di decadenza sociale e morale, la “popolanità” di Leone era invece tutta rivolta innanzitutto a un’altra classe sociale (e forse nemmeno una classe) e poi a una puntigliosa ricostruzione della realtà del tempo, dove l’imperativo della verosimiglianza rispondeva infine alla volontà di dare almeno una pennellata di realismo alle sue favole scanzonate e senza tempo.
Perché, dopotutto, lui aveva scelto di raccontare un aspetto di ciò che già il suo nume John Ford aveva sancito con la celeberrima conclusione dell’Uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, Usa 1962), non a caso uno dei film di Ford prediletti da Leone: “qui siamo nel West. Dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda” (in originale, molto più stringata, sbrigativa e moderna con quel suo riferimento alla stampa: “This is the West, Sir. When the legend becomes fact, print the legend”).
Se Ford aveva pirandellianamente scelto di raccontare la realtà che si cela dietro la leggenda, il più pragmatico Leone avrebbe pareggiato i conti in favore del mito, narrando quella leggenda che via via si era tramandata ai posteri grazie all’oralità (fatto che indubbiamente lo faceva collegare al suo adorato Omero) e al travisamento, man mano sempre meno consapevole, dei fatti storici, in nome del bisogno umano di spettacolo ed epos. Ed è per questo poi che il paradosso di raccontare la leggenda volendo essere, allo stesso tempo, più realistico di chi aveva deciso a priori di raccontare la realtà, produsse una manifestazione della violenza spesso pervertita sadicamente, spesso di indubbia compiacenza, sempre formale, che non ha nulla a che vedere con la durezza reale del periodo storico [nel quale essa] era radicata in un contesto preciso di rapporti sociali, [mentre] tutto si richiude su sé stesso, senza storia né ideologia, senza morale da frontiera né lotta tra civiltà e barbare, in una neutra, pericolosa retorica. Che era e ne rimane anche la ragione essenziale di seduzione.
Un paradosso che come è possibile confrontare costituisce una delle critiche più comuni mosse al cinema di Leone, spesso accusato infatti di voler essere romanticamente elegiaco ma di abbondare, per contro, in aridità e cinismo senza che sussista una rigorosa morale della visione.
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