Il reale va bene, l’interessante è meglio.
(Stanley Kubrick)
This is not America.
(David Bowie)
Intanto, Leone, completati gli studi e abbandonata la carriera universitaria giuridica che il padre desiderava completasse, si stava chiudendo sempre più in sé stesso e nel suo amore per il cinema: un amore così totale che lo rendeva benevolo e riverente verso il padre regista e molto meno invece con la madre, alla quale sembra non riuscisse a perdonare (vuoi forse per un mai sopito senso di colpa) il fatto che avesse lasciato la sua carriera di attrice e lo pseudonimo di Bice Walerian - lei che in un misconosciuto western del 1909 aveva interpretato addirittura una squaw indiana - per dedicarsi interamente alla famiglia e, quindi, principalmente, a lui.
Fu con questo background che a soli diciannove anni Leone scrisse la sua prima sceneggiatura (quell’autobiografico Viale Glorioso che non avrebbe mai realizzato), nello stesso anno in cui pressappoco compariva, nella brevissima parte di un seminarista che si ripara dalla pioggia assieme ad alcuni compagni e ai due protagonisti del film, in Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, per il quale si adoperò anche in collaborazioni più strettamente tecniche.
Da allora fino all’anno del suo definitivo esordio dietro la macchina da presa come singolo autore del proprio film, cioè ben tredici anni più avanti, il suo fu un graduale e sempre più attivo scivolare nei ritmi della macchina cinema e nei suoi ingranaggi produttivi, durante un’età dell’oro cinematografica in cui – fenomeno quasi esclusivamente italiano - le rischiose opere di ambizione dei cosiddetti “autori” potevano essere realizzate anche, e spesso soprattutto, grazie ai guadagni ottenuti dai film di genere dei “manovali o artigiani” del cinema, comprendenti fra gli altri saghe o cicli di eroi mitologici che spesso affondavano in un’iconografia povera sotto la direzione di personalità registiche di serie B.
Un sottobosco cinematografico in cui, allora, Leone era immerso (e la cui ideologia non rinnegò mai) e che avrebbe finito per attirare, per l’estrema facilità a lavorarci (nell’Italia dalle leggi non così ferree) e per la ricca reperibilità di set (nell’Italia dagli infiniti e strabilianti paesaggi), un numero sempre più cospicuo di troupe americane, anch’esse impegnate nella realizzazione di film storici di nessuna pretesa realistica e di impianto scopertamente spettacolare.
Leone, nel frattempo, conquistava la fiducia dei dirigenti e dei veri registi e saliva di grado, da semplice assistente che amava stare sui set desideroso di dare una mano dove serviva ad aiuto regista preparato e prodigo di idee e suggerimenti anche tecnici. Con l’ingresso sempre più massiccio di troupe cinematografiche americane in suolo italico, Leone aveva anche modo di confrontarsi direttamente con le proprie ossessioni, con i miti della sua infanzia e con i registi che più lo avevano segnato: ma se dal punto di vista professionale, l’esperienza di lavorare, tra gli altri, con il Robert Aldrich di Vera Cruz (id., 1954) o con il William Wyler di Ben-Hur (id., 1959) si dimostrò sicuramente valida e utile, da quello personale e umano fu una totale delusione, e costituì forse il primo moto di disincanto verso quella America che fino ad allora gli aveva mostrato soltanto la leggenda di sé stessa e che ora, improvvisamente, gli presentava la propria nuda e cruda essenza reale.
Per il resto, la carriera registica di Leone dura poco più di un ventennio ma - dal peplum (Gli ultimi giorni di Pompei; Il colosso di Rodi) agli spaghetti-western (la cosiddetta “trilogia del dollaro” rappresentata da Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo; C’era una volta il West e l’atipico Giù la testa) per finire al canto del cigno con il film di gangster (C’era una volta in America) e ai progetti abortiti [su tutti, il remake del già sfarzoso e colossale Via col vento (Gone with the wind, Usa 1939) di Victor Fleming] - è in costante ascesa: anche la critica è sempre più pronta a riconoscere il suo valore, perlomeno quello di cineasta tout-court che ha legato il suo nome alle immagini e alla visione, e, come ricorda Gianni Di Claudio, il suo epitaffio cinematografico finisce addirittura (unico titolo italiano) nella lista dei dieci migliori film degli anni ottanta.
L’ultimo progetto – una ricostruzione epica dell’estenuante assedio di Leningrado – è stato bloccato soltanto dalla morte (30 aprile 1989), l’eterno destino che regola la vita di ognuno di noi: e per un uomo/artista che ha dichiarato di essere quasi nato in un cinematografo e che ha fatto del cinema la sua vita (e viceversa), quale miglior sorte – sempre sotto il segno di una dolceamara ironia – se non quella di spegnersi cautamente durante la visione di un film, per l’appunto intitolato Non voglio morire?
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