Il reale va bene, l’interessante è meglio.
(Stanley Kubrick)
This is not America.
(David Bowie)
Intellettuale dall’anima popolare e, almeno a giudicare dalle numerose fotografie che lo ritraggono, quintessenza della “romanità”, con il barbone semincolto, la voce roca e profonda, gli occhietti acuti in un faccione severo ma dai tratti gentili e l’appetito vorace da Mangiafoco uscito da qualche vivida strofa di Trilussa o del Belli, Sergio Leone nacque, a Roma, il 3 gennaio 1929, figlio unico e ambito di Vincenzo Leone e di Edvige Valcarenghi, rispettivamente regista e attrice di cinema.
Romano figlio di non romani (il padre era di origini campane, la madre friulana) o, meglio, trasteverino fin dalla prima infanzia, giocata fra i viali e i vicoli del quartiere, fra amici spesso più grandi e tutt’altro che immaginari e un “nemico” contingente a proiettare ombre inquietanti dietro le spalle come in un film muto di Fritz Lang.Un nemico, il fascismo, e un periodo storico, quello degli anni Trenta del giovane Sergio, che tuttavia avrebbero potuto al massimo piegare od osteggiare l’attività artistica del padre – agli occhi di qualcuno passibile di condanna per come intristiva la realtà coi suoi “drammoni” cupi e ottocenteschi – ma che invece potrebbero col senno di poi anche avere temprato il pensiero e la filosofia del regista. Come sottolinea Fofi, ad esempio, e come risulterà anche dall’intervista allo sceneggiatore Sergio Donati posta in appendice.
[…] la mitizzazione della cultura americana è stata un fatto degli anni del fascismo, come reazione al clima stagnante e come idealizzazione di un mondo pieno sì di contraddizioni e di conflitti sociali e razziali, ma libero e coraggioso nella denuncia, “messaggio e risposta orgogliosa ai problemi del mondo”.
Fascino che tuttavia, a livello di massa, come sostiene Fofi in un excursus straordinario per brevità e intensità di analisi (in nuce anche del cinema leoniano),
[…] si era già espresso attraverso il cinema, e continuava a esprimersi nei limiti possibili, per poi esplodere con l’immediato dopoguerra. Erano gli anni d’oro (dal punto di vista della frequenza) dello spettacolo cinematografico, e il cinema americano offriva varietà di generi, stelle affermate, evasioni sicure, ma anche problematiche abbastanza nuove, pur se nascoste tra le pieghe del racconto, ancorché tutte risolte in azione e in favola. Era il “sogno americano di una cultura unitaria che trasferisse grazie al cinema i valori della società Usa in patria e nel mondo”. Il cinema americano, e quello western in particolare, aveva forza nei suoi messaggi per la sua capacità di essere dovunque, di costruire miti, di, soprattutto, nascondere le sue morali in azioni scintillanti di rapidità, concisione, speditezza. Ancor oggi, si subisce dal western anche un messaggio reazionario perché la sua astrazione avventurosa raramente riesce a irritarci ideologicamente, in fondo predisposti a “stare al gioco”, mentre con altri “generi” ci troviamo meno “scoperti”, più armati di rigore. Il western ci proponeva un mondo chiaro di naturalezza e di movimento, senza dubbi. Era l’America dell’infanzia, luogo fuori della storia e della geografia, luogo dell’avventura e della disponibilità eroica. Poi piano piano vennero i dubbi, […] e vennero le revisioni. E i western, da luogo privilegiato della regressione, sono lentamente diventati quasi strumenti di riflessione e di “presa di coscienza”. Ma ciò che li distingue ancor oggi rispetto ad altri generi è proprio questa mescolanza di regressione e di maturità, fedeli a degli schemi e a un paesaggio ben noto e nello stesso tempo consoni alla riflessione presente e alla crisi presente. I western – e non i film – sono “better than ever” proprio per questa loro possibilità di parlare dell’oggi attraverso metafore riconoscibili a tutti, attraverso schemi che sono patrimonio comune come un tempo lo furono le chansons de geste o i romanzi d’appendice.[…] Soddisfa la nostra sete di evasione, […] e soddisfa anche la nostra sete di conoscenza presente.
Certo è che il Leone degli anni Trenta aveva già imparato a trascurare la realtà fenomenica, a favore di una visione ludica ancora più che artistica della vita: già il fatto che ripetesse con puntuale precisione di avere mancato di poco la nascita dentro una sala cinematografica è sintomatico.
Nella Roma mussoliniana solo apparentemente placida e benestante, il futuro regista aveva quasi sicuramente più dimestichezza con il mondo dei set del padre che con quello della quotidianità circostante o, perlomeno, era già il primo ad attrarlo inesorabilmente. Un fascino alimentato e arricchito, inoltre, dalle esperienze concrete della sua prima giovinezza, che col senno di poi si sarebbero rivelate fonte di ispirazione e cuore tematico della sua futura opera cinematografica: le attività ludico-competitive con gli amici e soprattutto, forse, la folgorante scoperta dell’America, del suo mito ma anche delle sue contraddizioni, compiuta attraverso le più disparate forme di intrattenimento popolare, come il cinema, la letteratura, il fumetto.Leone sviluppa, chissà per quali vie autobiografiche, una passione forse già innata, quella piuttosto comune d’altronde, per la violenza e si lascia consapevolmente sedurre dal western che col tempo impara a conoscere a fondo e a rispettare. Il minimo comune denominatore fra i due interessi è certamente la nostalgia per un mondo ormai irrimediabilmente perduto con l’arrivo della moderna civiltà e delle sue istituzioni fondamentali: al tramonto di un’epoca in cui la violenza poteva ancora mantenere una sua dignità e un suo cavalleresco senso dell’onore, era subentrata l’alba di un’epoca in cui la violenza veniva (e viene) canalizzata, irreggimentata, parzialmente modificata, strumentalizzata da chi detiene il potere e vuole mantenero. Il western come anima dell’America Leone lo aveva già scoperto proprio in quegli anni di rigido regime autarchico: se già l’America come paese lontano e quindi vagamente “esotico” aveva un suo fascino epico e un suo potenziale mitico, soprattutto nell’immaginario fanciullesco di un bimbo già di per sé predisposto all’uso e abuso della fantasia personale, il fatto di assistere a spettacoli o di leggere libri/fumetti chissà come arrivati e tradotti (i film statunitensi, regolarmente distribuiti sino al 1939, subirono un massiccio blocco nei quattro anni seguenti e Leone, come i colleghi della sua generazione, recupererà il “tempo perduto” velocemente) accresceva senz’altro lo status di culto di quell’American Dream ancora inconsapevole ma ben presto ossessione esistenziale e artistica.
E se per un momento può apparire lecito che l’estensore di queste pagine lavori anche di fantasia e proietti elementi biografici sulla tela dell’opera cinematografica, piacerebbe davvero pensare che, in quel periodo, Leone – luce fioca, pantaloni abbassati, libro di Jack London sulle ginocchia – passasse parte del suo tempo libero a leggere nel fetido cesso comune di un modesto condominio, abbinando il piacere della lettura a pratiche corporali quotidiane un po’ come il suo futuro Noodles, magari aspettando una Peggy a cui mostrare orgoglioso l’appendice della virilità maschile e maschilista, mentre fuori la lotta per la sopravvivenza con relativi tentativi di sopraffazione reciproca avrebbe tranquillamente continuato a sporcare di sangue le strade e a rendere ancora più deserta una città che per il coprifuoco forse assomigliava già a uno di quei paesini fantasma della lontana frontiera. Naturalmente, nulla stava così, in primo luogo perché le condizioni economiche della famiglia Leone erano tutt’altro che modeste per l’epoca, poi perché il paesino fantasma era nientepopodimeno che la capitale Roma, certo una Roma papalina e prebellica ma pur sempre Roma.
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