Jef
Il protagonista di Le Samouraï rappresenta il completamento della costituzione dell’eroe/asceta da parte di Jean-Pierre Melville.
Con Jef il regista ha estremizzato dei tratti già introdotti nel personaggio di Silien. Come lui Jef è un uomo solitario, il cui ascetismo (che era stato appena accennato con Silien) raggiunge il suo apice mostrandoci un uomo assolutamente amorale, tanto distaccato dalla realtà da assumere le sembianze di un semi-dio. Come Silien, infatti, all’inizio del film assistiamo ad un personaggio la cui concezione di se è tanto alta da convincersi della propria onnipotenza: “Je ne perds jamais, jamais vraiment” esclama ad uno dei giocatori di poker. Ma se in Silien l’onnipotenza si manifestava nella manipolazione dell’altro, nel giocare con la vita e la psicologia dell’altro per mettere in atto un disegno da lui architettato, in Jef risiede nella purezza di un atto, quello dell’assassinio che gli concede il potere di uccidere per il piacere di farlo. L’atto dell’omicidio diventa il momento conclusivo di un lungo rituale compiuto con una meccanicità quasi ossessiva: innanzitutto il furto di un’auto, generalmente una DS seguito dalla visita ad un uomo, presso un garage di periferia, che gli fornisce targhe, documenti falsi e la pistola; una volta ottenuto il necessario Jef si reca sul luogo del delitto, indossa dei guanti bianchi (scelta abbastanza singolare, se pensiamo come un guanto bianco passi difficilmente inosservato) finalmente pronto a compiere il suo lavoro. L’incontro con la vittima si svolge sempre nello steso modo: lui e la vittima da soli, in un mancato scontro a fuoco che viene generalmente preceduto da un dialogo scarno ed essenziale a dimostrazione di quanto per l’eroe le parole siano superflue:
Martey’s: “Qui êtes- vous?”
Jef: “ Aucune importance”
Martey’s “ Que voulez-vous?”
Jef: “ Vous tuer”
O ancora nel secondo omicidio:
O.Rey:” Qu’est- ce que vous voulez?. On vous a remis les quatre millions.”
Jef: “Oui”
O.Rey: “ Vous avez accepté le second contrat?”
Jef: “ Oui”
O. Rey: “ Vous n’aurez pas du venir”
Jef: “ Je m’en vais”
Si parla di mancato scontro a fuoco, perché Jef, con un po’ di narcisismo e arroganza, concede all’interlocutore l’illusione di potersi difendere. Sia Martey sia Oliver Rey hanno il tempo di estrarre la pistola, ma non possono competere con la velocità con la quale Jef precede di alcuni istanti i suoi avversari, a dimostrazione della sua grande abilità e professionalità. Velocità che contrasta con la voluta lentezza nell’ultimo omicidio/suicidio, durante il quale Jef, pur non rinunciando all’esecuzione dei suoi rituali, mostrerà un’esitazione, una lentezza che vengono percepite come gli innaturali segni del suicidio (indotto, in quanto compiuto per mani di terzi, guidati dalla sua volontà) che sta per compiersi. Il suicidio sarà l’ultimo rito che Jef eseguirà per ritornare ad essere padrone del proprio destino e riaffermare il proprio onore (che per un istante credevamo fosse stato macchiato dalla sua inaspettata vulnerabilità). Già dalla seconda visita al “Martey’ s” un piano prennuncia l’inizio del declino dell’uomo, perché ce lo mostra senza impermeabile (ma ancora con il suo cappello), in F.I. e intrappolato nello spazio fra le due porte che sembrano riprodurre i contorni di una bara. A questo si aggiunge la rigidità dei suoi movimenti e il suo sguardo che percepiamo come in trance. Nell’ultima sequenza del film poi, Melville si sofferma su alcuni gesti/indizi per farci capire quale sia l’obiettivo dell’uomo: fuori dal locale, nell’auto, Jef svuota la pistola dalle cartucce; spegne il motore (mentre all’inizio del film, prima di uccidere Martey’s lo aveva lasciato acceso, pronto per la fuga); consegna il cappello, ultima traccia sul suo corpo di quella corazza che già era stata scalfita dal proiettile del killer (costringendo Jef a sostituire l’impermeabile con un cappotto scuro); esegue lentamente e in pubblico il rituale dei guanti, che ormai ha completamente perso il suo significato. Quando poi Jef si avvicina alla pianista il suo atteggiamento cambia completamente: il solito dialogo scarno di rito che prelude alla morte del suo interlocutore è tradito dalla tenerezza di uno sguardo che avevamo imparato a conoscere come freddo e implacabile. Soltanto in un’altra occasione ci era parso di intravedere nella dura esteriorità dell’uomo qualche traccia di sentimenti umani. Durante la sequenza in cui Jef si reca da Jane per l’ultimo addio. Il tenero abbraccio con il quale la saluta, è una vera sorpresa per lo spettatore, che qui per la prima volta intravede il tormento interiore di quest’uomo. Se con Jane continua però ad avere un’espressione piuttosto dura dipinta sul volto, nel momento in cui incontrerà la donna della quale si è innamorato, la pianista, la tenerezza del suo sguardo lo umanizzerà ristabilendo un sottile legame con la realtà. Melville ci racconta questo momento con una successione di lunghi campi e controcampi sui visi di Jef e della pianista. Quest’ultima è una figura piuttosto ambigua che si contrappone alla figura di Jane, soprattutto nel diverso rapporto che Jef instaura con ognuna di loro. Il rapporto Jane/Jef sembra basarsi sull’opportunismo e la necessità. Tranne quel breve abbraccio finale, Jef le riserva soltanto frasi scarne (per spiegarle quale sarà la versione dei fatti che dovrà raccontare alla polizia) e sguardi duri e molto rari. Con la pianista s’instaura invece un rapporto ambiguo, la cui evoluzione si cotruisce sullo scambio di sguardi fra i due. Inizialmente l’uomo, non ancora soggiogato dal fascino della pianista, le rivolge il suo sguardo da serpente, per tentare di impaurirla e ipnotizzarla, ma alla fine sarà lei a ipnotizzarlo, accompagnandolo nel suo viaggio verso la morte. La donna sarà l’unica con la quale Jef si aprirà, svelando un poco della sua interiorità e azzardando una possibile interpretazione degli eventi di cui è stato vittima inconsapevole.
“Quelle sorte d’homme êtes vous!” sarà il giudizio della Pianista alle parole ciniche pronunciate dall’uomo. Ma questa frase viene percepita dallo spettatore come il tentativo di concentrare l’attenzione su di lui, evitando che venga svelato il suo possibile doppio gioco. La donna, infatti, è un personaggio forse più ambiguo dello stesso Jef. Sembra essere all’oscuro di tutto, ma poi scopriremo che è la donna di O. Rey e cominceremo a sospettare un suo possibile coinvolgimento nel complotto ordito alle spalle di Jef. Importante in quest’ottica la sequenza nella quale lei, dopo aver fissato un appuntamento telefonico con Jef per fornirgli dei nomi, decide di non risponderr al telefono, vagando per la sua grande casa come in trance.
Come Silien, anche Jef compie l’errore di riporre la propria fiducia in qualcuno che probabilmente è una delle cause della sua morte. Un errore che in altri casi forse non avrebbe commesso che ora sembra quasi inevitabile per un uomo braccato e ferito ad un braccio.
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