Dossier:

Federico Fellini: Oltre l'estetica neorealista a cura di Giovanni Scolari

Le tentazioni del dottor Antonio (1962)
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9.3 Censura o dell'arbitrio assoluto

9.3.1 Un controllo soffocante

Nei capitoli precedenti il problema della censura si è presentato diverse volte. Volutamente è stata evitata una valutazione complessiva del fenomeno proprio per poterne fornire un quadro più preciso in occasione di questo film che è praticamente centrato su questa tematica.
Il regime censorio in vigore dai governi De Gasperi in poi è stato in larga misura peggiore di quello in atto nel ventennio fascista. La censura fascista occupava spazi ben definiti; quella democristiana, grazie alla sua capacità di centralizzazione, segna il trionfo dell'arbitrio più assoluto, del clientelismo, del ricatto ed è capace di colpire chiunque e in qualsiasi momento. Le pressioni non sono esercitate solo su registi e attori, ma soprattutto sui produttori che, in molti casi, fanno affidamento sui finanziamenti statali per ricavare un utile dai propri film.
Questo soffocante controllo deriva dalla convinzione che il cinema, che annovera molti artisti vicino alla sinistra, abbia in sé un forte potere di sovversione sociale e sia una delle cause del male che si estende nella nazione. A supportare e a rafforzare, se non a promuovere, queste posizioni c'è la Chiesa e le sue associazioni che vigilano con attenzione sugli avvenimenti culturali.
A questo si aggiunge la rigida sorveglianza che le sinistre, e in modo particolare i comunisti, esercitano sul cinema affinché non si esca dall'ortodossia marxista.
In una tale condizione le polemiche non possono che essere all'ordine del giorno a prescindere dalle provocazioni intellettuali che Fellini inserirà nei suoi  film.
Se il governo, con il silenzioso ma efficace lavoro oscuro di Andreotti (allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio), riesce a ridurre gli spazi di un cinema non allineato alla politica filogovernativa; gli intellettuali "liberali" di sinistra sopportano senza ribellarsi le nefandezze dello zdanovismo che, imposta l'estetica del realismo socialista, definisce Andre Gide "specialista in pederastia", dileggia Pablo Picasso, considera il jazz "gillespismo decadente", stronca Chaplin e Dreyer e svilisce personaggi come Camus, definito falsario, Silone, poco di buono, e Gorresio, chiamato carinamente "scarafaggio", solo perché reputano che, nonostante i difetti, il PCI sia l'unico argine che frena il dilagare delle parrocchie, dei comitati civici e degli abusi che restringono progressivamente la libertà d'espressione.

9.3.2  Il regno dell'eufemismo

La censura governativa, di natura ovviamente più ampia, si estende invece a tutti gli aspetti sociali. Non solo il cinema e il varietà (come abbiamo già visto) sono sottoposti a controlli. Persino il linguaggio è purgato da ogni parola che possa, in qualche maniera evocare il sesso o qualcosa di sconveniente. L'eufemismo regna indisturbato nel linguaggio ufficiale dove scompaiono termini come "seno", sostituito da "petto" e dove il sostantivo "coito", proscritto, viene tradotto in un patetico "espansione sentimentale".
Il cinema che è diventato ormai elemento indispensabile della vita dell'italiano è però il settore che più viene sorvegliato da Chiesa e DC uniti nella loro lotta moralizzatrice.
Primo bersaglio degli strali della censura è ovviamente il neorealismo che, non appena vede calare il consenso del pubblico,  diventa oggetto  non solo di contestazioni episodiche, ma anche di azioni di ben maggiore efficacia.
Giocando sulla motivazione che il cinema non dovrebbe offendere la dignità dell'Italia, Andreotti, così come i suoi successori nell'incarico,  riesce ad impedire la produzione di alcune opere scomode, limita la distribuzione di altre, sfregia pellicole facendo tagliare tutti gli episodi che, in qualche modo, risultano scomodi. Che la vigilanza di Andreotti fosse costante è dimostrato da una sua circolare ai prefetti emessa il 23.6.50 dove il sottosegretario si preoccupa di bloccare la proiezione di pellicole senza il nullaosta governativo nei circoli privati. E' ancora sua, nel 1952, la lettera al settimanale della DC, Libertas, in cui si condanna esplicitamente Umberto  D. di Vittorio De Sica reo, secondo lui, di avere descritto gli aspetti più crudi dell'Italia rendendo così "un pessimo servizio alla patria, che  è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale." Insomma il film, che narra le vicissitudini di un pensionato statale che non riesce a vivere con la sua misera diaria, non è, come si desume dall'accusa del politico democristiano, pervaso da un "ottimismo sano e costruttivo che aiuti veramente l'umanità a camminare ed a sperare."
La lettera ottiene subito un risultato: il film Italia mia che  De Sica e Zavattini volevano realizzare non sarà mai fatto.
Dal 1953 Andreotti non ricopre più l'incarico, ma la pignoleria burocratica dei censori non verrà mai meno tanto che il senatore Busoni dice: "Con l'Onorevole Scalfaro, tutore della morale artistica, noi signori ci meravigliamo soltanto, passando da piazza dell'Esedra, di non vedere ancora infilate le mutande alle naiadi della fontana."
La censura non risparmia nessuno e a volte colpisce con inusitata violenza. Chi osa solo ironizzare sul capo dello stato viene cacciato con ignominia. E' famoso il caso di Tognazzi e Vianello che in uno sketch della trasmissione televisiva Bim Bum Bam hanno parodiato Gronchi venendo subito dopo oscurati e licenziati dalla RAI.  E' tristemente nota anche la condanna di Giovanni Guareschi ad un anno di prigione per calunnia verso De Gasperi. Nel cinema si può citare la clamorosa e vergognosa condanna inflitta da un tribunale militare a Renzo Renzi e Guido Aristarco per aver pubblicato un loro soggetto per un film dal titolo L'armata s'agapò su Cinema nuovo del febbraio 1953. L'arresto e la condanna avvengono quando Andreotti ha già passato l'incarico a Bubbio e forse sono da attribuirsi all'eccessivo zelo del nuovo sottosegretario. Rimane, però, una palese e inammissibile violazione delle libertà individuali.
Solo nel 1956  viene approvata la legge che, abolendo la regolamentazione fascista, riforma l'istituto della censura. Tuttavia l'attuazione di tale legge, nonostante mantenesse intatto il potere di intervento del governo sul cinema, viene fatta slittare al 1962.
Gli interventi censori sono numerosissimi anche negli anni sessanta e raggiungono forse il loro culmine e fine con la messa al bando di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci che viene condannato al rogo nel 1974. Una decisione che viene ridicolizzata dalla storia.

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