Dossier:

Federico Fellini: Oltre l'estetica neorealista a cura di Giovanni Scolari

Luci del varietà (1950)
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2.2.2 Critiche e incassi

Il realismo delle situazioni narrate venne, d'altro canto, riconosciuto dalle recensioni della stampa specializzata. L'apprezzamento assume maggiore valore tenendo conto che la critica di sinistra si era unanimemente schierata a favore del neorealismo al punto di porre come unità di misura estetica le teorie elaborate da Zavattini nell'immediato dopoguerra. Nella critica di Bianco e nero, diretto da Luigi Chiarini, si dice: "Luci del varietà riesce ad ottenere ciò che Lattuada non ottenne mai finora: l'interpretazione veritiera e sensibile di un piccolo mondo". Una valutazione che acquista ancora più importanza se si considera che la rivista era pubblicata dal Centro Sperimentale di Cinematografia, ente statale controllato direttamente dal governo che ne nominava i direttori. Qui sta la dimostrazione della forza dirompente del neorealismo, capace di esercitare una forte influenza anche quella parte della critica cattolica che cercava di temperare gli attacchi a testa bassa contro questo movimento culturale di altri organi di stampa.
Su Cinema, dove è invece forte l'influenza di Guido Aristarco e della critica di sinistra, la difesa del film è assai  meno diplomatica. Non solo si attribuisce gran merito del realismo dei personaggi al contributo di Fellini - considerazione dovuta ai precedenti rosselliniani del regista - ma si condanna in modo perentorio e brutale Vita da cani, film concorrente sul mondo dell'avanspettacolo prodotto da Carlo Ponti.  Infatti per la rivista "la vicenda si sviluppa alla maniera dei fumetti, seguendo tutti i luoghi comuni e vieti della bassa letteratura [...] ponendo i guitti sullo stesso piano amorfo e d'appendice". Anche la letteratura risentiva del clima di contrapposizione che si era creato nel mondo della cultura e che avrà importanti riflessi all'interno della nostra ricerca da La strada in poi. Persino Aldo Palazzeschi, infatti, pone l'accento sulla verosimiglianza della ricostruzione del mondo del varietà, affermando che "il regista (Palazzeschi considera Fellini semplice coadiuvatore) prende a braccio lo spettatore e gli mostra quel mondo non preoccupandosi di farglielo  vedere né meglio né peggio di quello che è".
Simile  iniziativa  solleva probabilmente le ire delle case produttrici timorose di perdere il controllo del mercato. Così, per contrastarla, Carlo Ponti mette subito in cantiere - come s'è già fatto cenno - un film sullo stesso argomento, dopo aver  per anni rifiutato, curiosamente, un soggetto analogo a Fellini e Fabrizi, ingaggiando proprio l'attore romano e affidandone la regia a Monicelli. Inoltre la lobbie dei produttori esercita pressioni affinché il comitato tecnico per la cinematografia (ente previsto dalla legge sul cinema del 1949) neghi ai due registi il premio supplementare dell'8% riservato alle imprese di particolare valore artistico.  Grazie ai mezzi a disposizione di Ponti, Vita da cani  esce alcuni mesi prima di Luci del varietà influenzandone, ovviamente in modo negativo, l'andamento commerciale già gravato da grosse difficoltà distributive. Mentre il primo raggiunge la 34esima posizione tra gli incassi dei film italiani nella stagione 1950/51 con 255 milioni, Luci del varietà giunge solo 65esimo con un realizzo di 118 milioni, lasciando dietro di sé solo debiti.
L'ingloriosa conclusione economica di questo film non deve comunque far dimenticare la sua importanza che sta, come sottolineato dalle recensioni riportate, nella ricostruzione di un universo oggi ormai scomparso, ma così importante sia per l'immaginario collettivo del cosiddetto "maschio italiano" negli anni appena successivi alla guerra,  sia per i gusti del pubblico in quel periodo. Questo unanime riconoscimento rende peraltro credibile la ricostruzione del mondo dell'avanspettacolo proprio tramite il film in questione e i personaggi in esso rappresentato.

2.2.3 Non solo lustrini

La compagnia "Polvere di stelle" è lo specchio fedele della realtà delle piccole compagnie che sopravvivevano con stentate e avventurose tournée in provincia o con esibizioni nei più malfamati locali delle grandi città. Se per le grandi stelle della rivista (Totò, Fabrizi, Magnani, Osiris, Macario ecc.), infatti, il successo era in qualche modo garantito, le compagnie minori, come quella raffigurata nella pellicola, dovevano invece adattarsi di volta in volta alle piazze in cui si esibivano. Nelle località più popolose si faceva mezz'ora o 45 minuti di avanspettacolo che si trasformavano in uno stiracchiato show di 1 ora e mezza negli abitati più piccoli in cui l'arrivo anche della più scalcinata rivista esercitava un notevole richiamo. A questa regola non sfuggivano anche personaggi di un certo calibro come Achille Togliani, in quegli anni cantante molto in voga.
Il cast di queste compagnie era sempre alquanto raffazzonato, messo insieme quasi casualmente. La "Polvere di stelle" può essere considerata come archetipo dell'organizzazione di quegli spettacoli. Ogni artista  faceva più di una cosa, come Checco Dalmonte che si trasformava da comico nel misterioso "fanatizzatore delle platee", o come Melina capace di reinventarsi, in modo più o meno credibile, trasformista o esperta danzatrice di tango. Le bellissime girls, sempre vistosamente annunciate in cartellone, erano per lo più reclutate tra giovani disoccupate, ma spesso erano anche le sorelle o le amiche di qualcuno della compagnia o ragazze che speravano di far carriera come la Liliana del film, ingaggiata senza troppi problemi dopo che aveva offerto il viaggio in carrozzella agli artisti per condurli dalla stazione dei treni al teatro in cui la compagnia doveva esibirsi.
Occorre dire che la considerazione popolare le poneva quasi ovunque allo stesso livello delle prostitute, poiché molte di loro di frequente integravano i magri guadagni col fare la entreneuss. Queste ragazze, poi, erano tutt'altro che attraenti, proprio come il corpo da ballo visto nel film che non spiccava certo né per bellezza, né per senso del tempo, né per agilità. Avveniva, invece, molto spesso che il balletto costituisse un che di divertente per le sue scoordinate movenze. Rinaldo Geleng con Fellini le chiamava le "strappone" e le ricorda in modo molto prosaico dicendo che "si perdevano i grassi da tanto che erano ciccione" e che per lo più erano del tutto incapaci di tenere il tempo. Alcune  di esse, oltretutto , erano anche anziane, come una ungherese sessantenne che si esibiva nella "Morte del cigno" in modo talmente maldestro che il suo compagno di allora, Giovanni Senzani - personaggio che si ritroverà  in seguito - la derideva durante il suo numero dicendo: "Mo' more davero!". Zapponi le rammenta perché non erano capaci di ballare, ma "in compenso" cantavano molto male, proprio come la protagonista femminile del film.
Tuttavia sarà bene anche sottolineare che in una società che aveva patito il soffocante moralismo del regime fascista, l'apparizione di una gamba nuda costituiva un evento straordinario, soprattutto nelle piccole piazze della provincia. Il che spiega la reazione del pubblico all'improvviso incidente che, durante lo spettacolo, fa cadere la gonna a Liliana. L'universo maschile entra immediatamente in fibrillazione e si crea così  quell'atmosfera d'entusiasmo che decreterà il successo dello spettacolo fino a quel momento oggetto, invece, di fischi e insulti. Non è azzardata, a tal proposito, l'analogia della passerella del corpo di ballo con la sfilata delle prostitute nei casini mostrate nei film successivi di Fellini.
Del resto le cose non miglioravano molto anche in compagnie di medio livello. Nella  rivista che si esibisce a Rimini, all'interno del film I Vitelloni, i boys che fanno da contorno alla "Osiris" di turno sono certo ben lontani dagli aitanti e muscolosi atleti che si esibiscono oggi in televisione. I due qui mostrati si distinguono perché uno è calvo mentre l'altro è terribilmente strabico.
Se le ballerine stimolavano la fantasia erotica dello spettatore che perciò non badava troppo alle scarse doti artistiche o di avvenenza di queste ragazze, gli altri numeri erano  assai spesso oggetto di insulti da parte della platea, che non perdeva mai occasione per far sentire la propria voce. Nel film sono mostrate alcune esibizioni che paiono paradossali come quella del finto fachiro indiano e ventriloquo Edison Will che dà la voce alla sua oca. Oppure quella della trasformista Melina che, dopo essere stata sbeffeggiata durante tutto il suo numero, induce alla commozione gli spettatori quando imita Garibaldi con tanto di inno italiano.

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