2.2.4 "Da mangiare si rimedia sempre"
Tuttavia il personaggio principale, nel film come nella rivista, è sempre il comico, in questo caso Checco Dalmonte. Il nostro eroe è certamente il risultato dell'assemblaggio delle caratteristiche di diversi protagonisti della scena del varietà di quegli anni. Gente che proveniva quasi esclusivamente dalla provincia, moltissimi napoletani, che forse credevano di trovare l'Eldorado. Geleng ne ricorda uno che lui, Fellini e Fabrizi avevano frequentato a lungo e che aveva molti aspetti in comune con Checco. Si tratta del già citato Giovanni Senzani. Quest'uomo viveva solitario in camere d'affitto come il personaggio del film e come gli stessi Fellini e Geleng negli anni 39-43. Senzani era un fanfarone, si inventava successi inesistenti e avventure improbabili. Accumulava, invece, debiti su debiti, pagandoli non appena riusciva a racimolare qualcosa. Per mangiare, però, si sottoponeva a qualunque umiliazione. Spesso andava con donne bruttissime e vecchie o inventava espedienti di qualsiasi genere, come tenere durante l'estate i cani di coloro che andavano in vacanza per poter mangiare il loro cibo. Il suo modo di parlare è stato, secondo Geleng, imitato da Tino Scotti. D'altro canto tutti gli artisti si conoscevano perfettamente e i plagi erano non solo numerosi, ma inevitabili. Anzi in molti casi per campare si vendevano le proprie gag o le canzoni a comici più famosi.
Il luogo di incontro per tutti i personaggi dell'ambiente era la Galleria Colonna, descritta anche da Alberto Sordi, che quella vita aveva realmente fatto all'inizio della sua carriera, in Polvere di stelle (1972). Qui si organizzavano tournée raccogliticce che a volte non garantivano neppure un misero guadagno. E' impossibile non ravvisare somiglianze tra Senzani e il personaggio di Checco, anche se, ovviamente, gli sceneggiatori si sono ispirati anche ad altre figure della rivista.
2.2.5 L'eredità del Circo Massimo
Difficile spiegare i motivi che spingono una persona a fare una vita così piena di sacrifici e umiliazioni. Il pubblico certo non ricompensava questa loro dedizione assoluta verso il teatro con complimenti e applausi, anzi. I vari numeri erano spesso un intervallo poco gradito tra un balletto e l'altro. Se nei teatri di provincia gli apprezzamenti pesanti e l'entusiasmo per le ballerine è condizionato dalla presenza più o meno numerosa di donne e bambini, nella capitale l'avanspettacolo è eletto a forma massima di divertimento. Erede della tradizione del Circo Massimo, lo spettacolo durava complessivamente dalle 3 alle 4 ore all'interno di un ambiente chiuso, pieno di fumo, scomodo e maleodorante. Se per i teatri più importanti il decoro era ancora tenuto in considerazione, in quelli di second'ordine si poteva fare di tutto, come accade in Roma dove una donna fa mingere il proprio figlio nel corridoio. Gli spettatori capitolini, certamente assai più disincantati rispetto al pubblico di provincia e anche molto più rumorosi, affrontavano con feroce consapevolezza la serata. Anzi il dileggio era eletto a forma d'arte, una dimostrazione di personalità. Il lancio del gatto morto (anche questo mostrato in Roma) era una specie di forca caudina a cui si dovevano sottoporre, prima o poi, tutti i comici come è sovente accaduto a Renato Rascel che, stando alle parole di Geleng, ne aveva "presi talmente tanti che se li sognava di notte!".
2.2.6 Dalla vita comune al palcoscenico
Resta ancora da tracciare un ritratto adeguato della protagonista femminile: Liliana. Questa donna, una vera e propria arrampicatrice sociale, che vede nell'avanspettacolo il mezzo per ottenere la fama e la sicurezza economica, appare per la prima volta durante una esibizione della compagnia "Polvere di stelle". In mano tiene Bolero, uno dei fotoromanzi più venduti in Italia. Del suo passato si sa poco: è probabilmente orfana (forse di guerra) e non si riesce a capire se vive col padre o con dei parenti con cui, comunque, non ha un buon rapporto. Il suo unico credito è di aver vinto una maratona di ballo di settanta ore e il suo più grande desiderio è di "entrare in arte". Il suo passato, i suoi desideri accomunano a questa figura la vicenda delle molte ragazze sbandate protagoniste di numerose pellicole nel dopoguerra. Liliana è, infatti, la sorella più fortunata del personaggio, da lei stessa interpretato, in Senza pietà 1947, dello stesso Lattuada, e della Silvana Mangano di Riso amaro 1949 di De Santis. Anche lei è uscita dalla guerra segnata, desiderosa solo di raggiungere i propri sogni e incapace di comprendere la realtà. Liliana, però, non si fa travolgere da essa non scivola, come i due personaggi di Riso amaro e di Senza pietà, nella tragedia nel tentativo di cancellarsi e dimenticare il proprio passato. Lei usa, invece, la sua bellezza, e il suo corpo, per raggiungere il proprio scopo: il successo, la fama e la ricchezza o, almeno, l'agiatezza. Tuttavia l'ultima sua apparizione è speculare al suo ingresso nel film quanto a "cultura". Mentre si sta recando a Milano, dove parteciperà ad una importante rivista, porta con sé ancora dei fotoromanzi, dimostrazione evidente della sua incapacità di uscire dal suo ristretto orizzonte per entrare appieno nella realtà che le sta intorno.
Questo mondo, questi personaggi vengono inghiottiti dalla irreversibile crisi dell'avanspettacolo travolto prima dall'avvento delle grandi riviste e poi dal successo della televisione. Pochi di loro sapranno adeguarsi e sopravvivere alla nuova "civiltà" che avanza. Gli uomini come Checco, invece, scompaiono tristi e miserabili, abbandonano il palcoscenico e i sogni per tornare alla vita comune di tutti i giorni. |