Dossier:

Federico Fellini: Oltre l'estetica neorealista a cura di Giovanni Scolari

La strada (1953)
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5.2.3 Crisi del neorealismo

La polemica sorta intorno al film di Fellini porta ad un dibattito interno che trova la sua motivazione nella crisi del neorealismo e dei suoi epigoni critici che trovano conforto e appoggio nella "militarizzazione" della cultura cinematografica da parte del PCI. Una militarizzazione nata in seguito all'uscita del volume di Andrei Zdanov, Politica e ideologia, nel 1949 che condiziona l'atteggiamento dei comunisti italiani nella cultura durante tutta la guerra fredda. Certo le rigidità delle teorie zdanoviane vengono attenuate e smussate, in parte, dalla pubblicazione dei Quaderni di Gramsci, ma resta manifesta la tendenza conformista di molta parte della critica di schierarsi da una parte del confronto con idee preconcette e forti pregiudizi.
La crisi evidente in cui è caduto il neorealismo crea la necessità di trovare il modo di uscire da questa fase di immobilismo del cinema italiano portandolo dal neorealismo al realismo. Il disagio di questa scuola cinematografica si incrocia con la congiuntura negativa del realismo socialista che ancora non si vuole egualmente dichiarare e riconoscere.
L'acceso dibattito sul presunto tradimento del neorealismo da parte di Fellini mostra, alla fine, proprio le lacerazioni presenti in coloro che questa polemica hanno iniziato. Il fronte neorealista si spezza quindi in diverse fonti di dissenso in una crisi aggravata dall'invasione sovietica dell'Ungheria nel 1956 che produrrà un terremoto negli ambienti culturali vicini al PCI.
Il processo di disgregazione della critica di sinistra è confermata anche dalle violente polemiche relative a due casi letterari: Vasco Pratolini e Beppe Fenoglio.
Il primo esce nel 1955 con Metello, un romanzo molto atteso in quanto facente parte della trilogia Una storia italiana, che si proponeva di ricostruire la storia nazionale del ventesimo secolo. Il romanzo non corrisponde alle attese della critica marxista che si spezza immediatamente in due fronti. C'è chi, come Carlo Salinari, vede in Metello una svolta cruciale, vale a dire la fine del neorealismo e l'inizio del realismo. I detrattori, invece, non riconoscono nel personaggio di Metello un eroe positivo e criticano l'ottimismo superficiale della narrazione.
Beppe Fenoglio esordisce, invece, nel 1952 con I 23 giorni della città di Alba, nella collana I Gettoni  diretta da Elio Vittorini. Il romanzo, che rivela in tutta la sua crudezza la realtà della lotta partigiana, è attaccato da critiche di stampo ideologico che decreteranno l'emarginazione di Beppe Fenoglio dal mondo letterario italiano che lo riscoprirà parecchi anni dopo la morte avvenuta nel 1963.

5.2.4   "Senza tetto né legge"

In un'atmosfera così surriscaldata, in cui prevalevano le componenti ideologiche su quelle sociali e culturali, è completamente sfuggito agli occhi della critica che l'opera di Fellini descriveva un mondo in via di estinzione: i vagabondi. L'evoluzione economica dell'Italia stava, infatti, distruggendo ogni possibilità di vita a questi personaggi che, vagabondando da una parte all'altra della nostra penisola, si inventavano i mestieri più improbabili oppure si trasformavano, come in questo caso, in artisti da strada.
Proprio l'atmosfera respirata in questo ambiente era stata oggetto di attenti studi da parte di Tullio Pinelli che aveva esordito in teatro con una pièce (La pulce d'oro) ambientata tra i vagabondi. Questo interessamento, oltre al desiderio mai realizzato di abbracciare questo tipo di vita, ha portato Pinelli ad avvicinare questi personaggi che ciondolavano da una sagra di paese ad un mercato  di un altro. In tutte le piazze si potevano ammirare fachiri sul modello di quello visto in Luci del varietà, giocolieri, mangiafuoco oppure si potevano apprezzare le capacità oratorie di imbroglioni che vendevano finto  oro a prezzi stracciati dicendo di averlo ricevuto da contrabbandieri peruviani; o ancora dei cosiddetti dulcamara che vendevano ai creduloni rimedi e consigli contro ogni tipo di malattie.
Le strade di tutta Italia erano invase da questi personaggi che, privi di una casa, raccoglievano in ogni modo il poco che gli bastava da vivere. Giravano con il sacco a spalla sulle strade raramente asfaltate come un anziano signore che passava la vita trasferendosi dalla casa di un figlio a quella dell'altro. Pinelli ritiene che la vita di questi vagabondi era frutto di una scelta, per il piacere di fare i saltimbanchi senza costrizioni sociali di alcun tipo. Era il rifiuto di ogni tipo di responsabilità, di ogni preoccupazione e anche delle convenzioni a cui è sottoposta una normale persona. In qualche modo questi girovaghi sono i padri putativi dei barboni attuali; entrambi sono mossi da analoghe motivazioni in questa loro scelta anche se, è ovvio, bisogna rifuggere da ogni tipo di generalizzazione e si deve sempre tenere presente le differenze socio - economiche dei due periodi in questione.
E' difficile definire con precisione la sorte di questi personaggi, non esistono a proposito né statistiche né fonti a cui riferirsi. E' probabile che l'avvento dell'era industriale li abbia confinati in spazi sempre più marginali e ristretti, quando non li abbia distrutti e ridotti alla fame. Il loro destino non poteva essere diverso da quello di Gelsomina: senza documenti, casa, soldi e con alle spalle una vita piena di fatica, privazioni che non poteva non aver lasciato dure tracce sul loro fisico, questi vagabondi sono finiti, con molta probabilità, in ospizi o ridotti all'accattonaggio.
L'ancora di salvezza per pochi di loro era costituita da quei poveri circhi a conduzione familiare che campavano miseramente girando nei piccoli centri della provincia italiana.  Quei circhi che sono patrimonio di tutti i "provinciali", sono presenti anche nei miei ricordi; giungevano a primavera e si installavano in un campo alla periferia del paese. Il tendone era minuscolo, i posti a sedere erano pochi ed i numeri di una assoluta banalità. La qualità dello spettacolo non era particolarmente elevata,  ma il discreto stato delle loro roulotte, così diverse da quelle scalcagnate e povere mostrate da Fellini nel corso del film, dava idea di un accettabile livello di vita. Anche il regista conosceva bene il mondo del circo come d'altro canto è facilmente intuibile da tutta la sua opera. Non a caso il nome di Zampanò è dovuto all'assemblaggio di due nomi di famiglie circensi: Zamperla e  Saltanò. Il circo, dunque, è la passione di Fellini insieme al varietà, già trattato nella sua opera d'esordio.

5.2.5  La diffusione del culto mariano

Da Luci del varietà a La strada si possono notare significative differenze nella descrizione del paesaggio circostante.
Se, infatti, il paesaggio mostrato nel film del debutto era ancora fortemente segnato dalle distruzioni belliche, Anthony Quinn e Gelsomina vagano poi per i sobborghi delle città dove i  palazzinari la fanno da padroni costruendo casermoni uguali e monotoni. E’ in questo paesaggio urbano che si possono notare i cambiamenti già avvenuti. Nel finale, infatti, ambientato su di un lungomare, quando Zampanò scopre che Gelsomina è morta, il girovago si aggira tra una folla di persone che si godono la passeggiata domenicale, sintomo di una rinascita economica che comincia a farsi sentire.
La provincia non ha ancora pienamente recuperato, come si evince dal povero abbigliamento mostrato durante la scene del matrimonio in campagna e nel corso della processione, ma certamente esiste un miglioramento sensibile che è evidente nel raffronto tra i due film in questione.
Tuttavia il progresso industriale e la rivoluzione sociale in atto collidevano con la politica sociale di Papa Pio XII. Il suo ruralismo, i suoi richiami alla frugalità e all'austerità sono un moto di reazione all'economia di mercato, tuttavia non gli impediscono di avviare un forte processo di compenetrazione nella vita di tutti i giorni che sarà oggetto d'esame in un successivo capitolo. Essenziale nell'azione politica e sociale del Papa è l'accentuazione del culto mariano. La Madonna viene fatta oggetto di una particolare venerazione al punto che nel 1954 - lo stesso anno di produzione de La strada - viene indetto, per la prima volta nella storia della chiesa, un "anno santo mariano" e viene pubblicata l'enciclica Sacra virginitas, che fa seguito alla Fulgens corona, resa nota l'anno precedente.
Anche Fellini ha recepito questo clima mostrandone gli aspetti a volte spirituali, a volte deleteri. Il culto della Madonna rientra, infatti, in tre pellicole di questo decennio: La strada, Le notti di Cabiria (1957) e La dolce vita (1960). Nel primo film è mostrata la processione della Madonna Immacolata in un piccolo paese; nel secondo il pellegrinaggio al santuario della Madonna del Divino Amore e, nell'opera più imponente della storia del cinema italiano, La dolce vita, è di grande importanza l'episodio dei due bambini che dicono che la madre di Gesù gli è apparsa e gli ha parlato. Isolando i tre episodi dal contesto dell'opera in cui si trovano e legandoli tra loro è subito evidente come lo sguardo di un cattolico, sia pure sui generis, come Fellini passi da un'attenta e rispettosa descrizione del culto di un paese di provincia, in cui sono messi in  risalto il legame forte e sincero della cultura contadina, alle parossistiche scene di isterismo religioso presenti nell'ultima pellicola qui considerata.
Non è sfuggita, invece, all'attenzione della stampa la critica implicita all'istituzione matrimoniale insita nel film di Fellini. Questi aspetti non potevano non irritare sia la critica cattolica - in fondo il culto mariano era stato incrementato per sottolineare la sacralità della generazione all'interno dell'istituto del matrimonio - sia la critica marxista che si mostrava ugualmente moralista, se si eccettua il caso di Togliatti a cui era consentito cambiare compagna senza problemi, e risoluta nel riprovare pubblicamente ogni tentativo di sollevare il problema del divorzio.
Questi motivi sono probabilmente alla radice della ancora più violenta battaglia che si scatena all'indomani dell'uscita del successivo film di Fellini Il bidone. Il suo insuccesso commerciale libera rancori sepolti e meschinità represse che approfittano dell'occasione per regolare i conti con il cinema felliniano, mal sopportato perché non riducibile ad alcuna categoria.

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