La morte, la statua, l'angelo: l'identità orfica
Basta scorrere la biografia di Cocteau per rendersi conto di quanto precoci e pesanti siano state le sue esperienze con la morte. Quando il poeta non ha ancora compiuto nove anni, subisce il suicidio del padre; Cocteau non ha mai parlato volentieri della sua reazione a questo avvenimento, e questo basta a mostrare quanto esso sia stato incidente nella sua formazione psicologica e, come vedremo, letteraria. Pochi anni dopo, nel 1901, un compagno di scuola muore tragicamente; l’importanza di questa nuova perdita è tale che Cocteau la trasformerà, nel Livre blanc, nella morte di Dargelos. Tralasciamo la morte dei nonni materni, esperienza cui molti bambini sono soggetti in età più o meno precoce, per arrivare ad un avvenimento molto più tragico: il suicidio, quasi davanti agli occhi di Cocteau non ancora ventenne, di un amico durante un viaggio a Venezia. Esperienza tanto più scioccante, in quanto replica della morte del padre, suicidatosi anche lui con un colpo di pistola alla tempia. Un’altra perdita molto sofferta è quella di Jean Le Roy, un giovane scrittore con cui Cocteau aveva instaurato una relazione durante la prima guerra mondiale; Le Roy cade in battaglia durante la fase più tragica del conflitto, meno di un anno dopo avere conosciuto Cocteau. In una lettera ad André Gide questi scrive:
Je vous écris parce que je souffre. On a tué mon ami Jean Le Roy que j’adorais et pour qui j’étais tout… Il était jeune, beau, bon, brave, génial, simple, c’est ce que la mort aime…
Alla memoria di Le Roy sarà dedicato l’anno seguente il Discours du grand sommeil, di cui parleremo tra breve.
Ma tutte queste esperienze di morte, sebbene importantissime dal punto di vista della formazione, possono essere viste, a posteriori, come una lunga e dolorosa preparazione alla morte di Raymond Radiguet, evento davvero capitale nella vita del nostro autore. Come sappiamo, fra Cocteau e l’autore del Diable au corps c’era un rapporto di profondissima amicizia, estremamente produttivo sia dal punto di vista umano che da quello letterario; la morte di questi lasciò un vuoto incolmabile in Cocteau, che non esiterà a cercare un rifugio alla depressione nell’oppio. Quello che ci interessa sottolineare è che a partire dal 1923, anno della scomparsa di Radiguet, la morte e la poesia (intesa come produzione artistica in generale) saranno ormai per sempre strettamente legate nell’universo cocteliano.
A partire dall’analisi tematica di alcuni componimenti poetici è possibile rendersi conto di quale sia l’idea che Cocteau ci offre della morte e dell’aldilà, e di come la questione dell’ispirazione e della nascita della poesia, nucleo minimo fondamentale del ciclo orfico, sia centrale nella sua poetica. Potremo inoltre vedere che i temi che incontreremo più frequentemente sono trasposti in maniera fedele nei film di cui ci occupiamo; sarà allora possibile stabilire lo statuto del poeta orfico, identità che Cocteau ha ricercato e raggiunto sin dagli albori della sua carriera artistica.
Il primo testo che prendiamo in considerazione è “Visite”, pagina di prosa poetica inserita nella raccolta di versi intitolata Discours du grand sommeil: scritte fra il 1916 e il 1918, le poesie confluite in questa silloge costituiscono una riflessione sulla guerra e sul dolore che essa occasiona. Questo testo contiene in nuce molte delle idee sulla morte e sull’aldilà che saranno sviluppate in seguito. In “Visite” la voce che parla è quella di un uomo morto in guerra da poco tempo che viene a visitare l’autore per annunciargli la sua scomparsa; questo personaggio è evidentemente una trasfigurazione della persona reale di Jean Le Roy. Il testo si apre su queste parole:
J’ai une grande nouvelle triste à t’annoncer: je suis mort. Je peux te parler ce matin, parce que tu somnoles, que tu es malade, que tu as la fièvre.
Già nell’incipit il narratore ci spiega come sia possibile una comunicazione fra un vivo e un morto: grazie al sonno, effetto in questo caso della malattia. Il sonno (e il sogno) permettono a chi dorme di abbandonare il proprio corpo e con esso le tre dimensioni entro le quali i viventi sono costretti, per dissolversi in uno spazio-tempo differente. A conferma ed esplicazione di questa idea, possiamo citare le prime due strofe di una poesia pubblicata nel 1954:
Rien ne cesse rien n’est les morts ne sont pas morts
Les vivants s’imaginent vivre
Un acte continue où l’on ne peut le suivre
Rien n’est dedans rien n’est dehors.
Rien ne pèse tout pèse et notre marche lourde
Est légère dans le sommeil
Aveugles sont nos yeux et nos oreilles sourdes
Dans un monde au rêve pareil.
Nel sonno si perde la coscienza del proprio corpo per perdersi in un corpo unico e diffuso, dove le dimensioni non esistono perché la percezione non soffre limiti. Lo stesso ci viene detto dal visitatore a proposito della condizione di un morto:
J’étais une eau qui avait la forme d’une bouteille et qui jugeait tout d’après cette forme. Chacun de nous est une bouteille qui imprime une forme différente à la même eau. Maintenant, retourné au lac, je collabore à sa transparence. Je suis Nous. Vous êtes Je.
Ecco dunque come il sonno e la morte arrivano ad equivalersi, trovando il loro punto di incontro nella perdita degli assi (tri)dimensionali.
L’equivalenza fra il regno di Morfeo e quello della Morte è suggerita anche in una delle prime sequenze del film Orphée: quando la Principessa si trova con Orfeo nello chalet dove si consumerà la morte di Cégeste, alcuni scambi di battute non lasciano dubbi:
LA PRINCESSE – Dormez-vous debout? (Elle monte les escaliers.)
ORPHEE – Je le crois.
E ancora, più avanti:
LA PRINCESSE – Décidément, vous dormez.
ORPHEE – Oui… oui… je dors… C’est très curieux.
[…]
ORPHEE – Enfin, madame… m’expliquerez-vous ?
LA PRINCESSE – Rien. Si vous dormez, si vous rêvez, acceptez vos rêves. C’est le rôle du dormeur.
La percezione che ha Orfeo del mondo in cui si trova è equiparata a quella di un uomo addormentato che vive nel proprio sogno. Come il sogno, per quanto assurdo, è accettato passivamente da chi sogna, così le regole e i meccanismi dell’altro mondo, incomprensibili per un vivente penetratovi eccezionalmente, devono essere rispettati e subiti così come si rispettano e subiscono i propri sogni.
Il torpore occasionato dal sonno è dunque condizione necessaria per l’incontro fra il mondo dei vivi e quello dei morti. Ma il protagonista di “Visite” aggiunge un’ulteriore condizione: bisogna che la velocità del vivo e quella del morto siano simili:
Notre vitesse est si forte qu’elle nous situe à un point de silence et de monotonie. Je te rencontre parce que je n’ai pas toute ma vitesse et que la fièvre te donne une vitesse immobile rare chez les vivants. Je te parle, je te touche.
La velocità alla quale si muovono gli abitanti dell’altro mondo è talmente elevata che li rende invisibili. Cocteau ama citare spesso come esempio le pale di un’elica in movimento, che sono tanto meno distinguibili alla vista quanto più veloce è il loro movimento; l’occhio non percepisce che un disco immobile e semitrasparente, e le pale diventano invisibili. La trasparenza e l’invisibilità del morto (e lo stesso si può dire dell’angelo, di cui parleremo fra poco) sono l’effetto della sua velocità:
La vitesse du mouvement radieux qui compose [l’ange] empêche de le voir. Si cette vitesse diminuait, sans doute apparaitraît-il.
Vivi e morti non abitano due mondi distinti, paralleli o perpendicolari che essi siano, ma coabitano; lo spazio che noi crediamo di occupare può essere condiviso con una creatura dell’aldilà, il cui corpo però si espande secondo dimensioni diverse dalle nostre. Vita e morte non sono che due facce dello stesso foglio: “Mort, à l’envers de nous vivante, tu composes / La trame de notre tissu. […] Nous lisons un côté de la page du livre; / L’autre nous est cachée”. L’incontro fra l’uomo e l’angelo può avvenire dunque solo grazie ad un’intersecazione fra piani indipendenti l’uno dall’altro: l’annunciazione ha luogo nel punto d’intersezione dei due sistemi dimensionali.
Se è vero che la velocità è data dal rapporto fra spazio e tempo, la differenza di velocità indica che queste due variabili differiscono da un mondo all’altro, ovvero che spazio e tempo non sono percepiti alla stessa maniera nei due mondi. Anche in questo caso possiamo trovare una conferma nei film. All’inizio del Sang d’un poète vediamo una ciminiera in procinto di crollare, e la sequenza finale ci mostra il crollo della stessa ciminiera; tutti gli avvenimenti a cui assistiamo durante il film si svolgono nel lasso minimo di tempo in cui si consuma il crollo della ciminiera. Analogamente, la sequenza del viaggio di Orfeo nell’aldilà alla ricerca di Euridice è preceduta dall’inquadratura di un postino che imbuca una lettera, seguita dall’inquadratura della stessa lettera che cade nella buca, e incorniciata da due inquadrature di un orologio che segna sempre la stessa ora: il tempo che serve ad una busta per cadere nella buca dalle mani del postino è lo stesso che impiega Orfeo, nell’altro mondo, per assistere al processo della Principessa e di Heurtebise e per tornare a casa. A titolo di esemplificazione ulteriore, citiamo uno spezzone del dialogo fra Cégeste e la Principessa che aspetta, se così si può dire, il ritorno di Orfeo nell’aldilà:
LA PRINCESSE – C’est la première fois que j’ai presque la notion du temps. Ce doit être affreux, pour les hommes, d’attendre…
CEGESTE – Je ne me le rappelle plus.
LA PRINCESSE – Vous vous ennuyez ?…
CEGESTE – Qu’est-ce que c’est ?… – Silence
LA PRINCESSE – Excusez-moi, je me parlais à moi-même.
La principessa è talmente coinvolta nel modo di sentire umano che arriva quasi a percepire il tempo nella stessa maniera in cui lo percepiscono gli uomini, al contrario di Cégeste che, sebbene morto da poco si trova già a suo agio nel nuovo modello percettivo.
E’ interessante notare come questa concezione del tempo, e delle differenti maniere di percepirlo, si ripresenti in un’opera parimenti distante dal Discours du grand sommeil e dai film quale La Machine infernale. Attraverso una metafora ardita ma calzante, Anubis spiega la differenza fra il tempo vissuto dagli uomini e la vita degli uomini vista dagli dei:
ANUBIS, il montre la robe de Sphinx. – Regardez les plis de cette étoffe. Pressez-les les uns contre les autres. Et maintenant, si vous traversez cette masse d’une épingle, si vous enlevez l’épingle, si vous lissez l’étoffe jusqu’à faire disparaître toute trace des anciens plis, pensez-vous qu’un nigaud de campagne puisse croire que les innombrables trous qui se répètent de distance en distance résultent d’un seul coup d’épingle ?
LE SPHINX – Certes non.
ANUBIS – Le temps des hommes est de l’éternité pliée. Pour nous, il n’existe pas. De sa naissance à sa mort la vie d’Œdipe s’étale, sous mes yeux, plate, avec sa suite d’épisodes.
Tutto quello che è stato detto per il tempo è altrettanto valido per lo spazio. Basti pensare al topos tipicamente cocteliano del passaggio attraverso lo specchio: quella che appare come una superficie solida è in realtà una porta, facilmente attraversabile per chi sa dove essa conduce, attraverso la quale gli abitanti dell’aldilà vanno e vengono a loro agio. Possiamo inoltre trovare moltissimi esempi di infrazione alle norme dimensionali nei film: Heurtebise appare e scompare a suo piacimento, facoltà che gli è invidiata da Cégeste che non si è ancora abituato alla nuova corporeità. Allo stesso modo appare e scompare il poeta del Testament d’Orphée, che si dichiara “égaré dans l’espace-temps”. Inversamente, un’inquietante difficoltà di movimento impaccia ugualmente i gesti di Orfeo nel suo viaggio illecito nella Zona, e quelli del protagonista del Sang d’un poète alle prese con le visioni dell’Hôtel des Folies Dramatiques. Il professore del Testament, interpellato come testimone nel processo al poeta che ha luogo nell’aldilà, dichiara: “J’éprouve… comme une difficulté d’être… une manière de fatigue…”. E ancora, pensiamo alla sequenza di Orphée in cui il protagonista cerca invano di raggiungere la principessa, che scompare dietro l’arcata di un portico per riapparire da un’altra. Come abbiamo già spiegato, l’incontro fra due abitanti dei due mondi non avviene che in situazioni rare e specifiche.
Ritorniamo adesso alla poesia per analizzare gli spunti offerti da un componimento redatto fra il 1942 e il 1944, in piena guerra: Léone. Come “Visite”, questo poema racconta l’incontro del poeta con un’enigmatica figura che lo viene a visitare nel suo mondo, per accompagnarlo stavolta in uno strano viaggio. Anche in questo caso il sogno è il fattore propiziatore, come ci è detto già dal primo verso: “C’est la nuit du vingt-huit que je rêvai Léone.”; o ancora: “Le rêve était en moi comme Léone en lui”15, “Ainsi je marche en l’air selon la loi du songe”. Léone, che dota il poeta della facoltà di muoversi fuori del tempo e dallo spazio, che lo conduce lungo i corridoi del sogno per mostrargli da lontano la vita degli abitanti della terra, colti nella ripetizione dei loro gesti quotidiani, altro non è se non una delle figure della morte. Non è dunque casuale se la Morte si presenta al poeta insinuandosi nel suo sonno.
Ma, oltre alla conferma dell’equivalenza fra morte e sonno, due passaggi di Léone ci spingono a trovare in questo personaggio soprannaturale altre identità e prerogative: nel primo verso di una delle ultime strofe l’autore si rivolge a Léone chiamandola “Muse de mon réveil”. Questo epiteto rende esplicita l’identificazione fra la Morte e la Musa, entrambe personificazioni della Poesia: il poeta, per essere tale, deve farsi frequentatore dell’altro mondo, “[il] doit seulement s’efforcer de sur-vivre, c’est-à-dire de marivauder – légèrement et gravement à la fois – avec sa propre mort”. Del resto, già in “Visite” trovavamo questa analogia esplicitata in maniera chiarissima:
La poésie ressemble à la mort. Je connais son œil bleu. Il donne la nausée. Cette nausée d’architecte toujours taquinant le vide, voilà le propre du poète. Le vrai poète est, comme nous, invisible aux vivants. Seul, ce privilège le distingue des autres. Il ne rêvasse pas : il compte. Mais il avance sur un sable mouvant et, quelquefois, sa jambe enfonce jusqu’à nous.
Questo passaggio tocca molti altri punti su cui torneremo a breve, ma stabilisce perentoriamente il legame fra morte e poesia.
Prima di approfondire la questione del rapporto fra il poeta e la (propria) morte, è necessario stabilire un’altra identificazione, proposta anch’essa da due versi di Léone. In una strofa in cui l’autore descrive l’andatura della protagonista leggiamo:
Ainsi le Commandeur ébranlait le terrain
Ainsi la Vénus d’Ille et sa marche d’airain…
Attraverso il riferimento a due notissimi personaggi della letteratura francese, ovvero il Commendatore di pietra che si reca al banchetto offertogli da Don Giovanni, e la Venere di bronzo del celebre racconto di Mérimée, Léone è paragonata ad una statua. Ma gli esempi che Cocteau riporta non sembrano essere stati scelti casualmente, dato che si tratta in entrambi i casi di statue assassine: la statua del Commendatore è quella che annuncia a Don Giovanni la sua dannazione eterna, spingendolo fra le fiamme degli inferi; la statua di Mérimée a sua volta stritola fra le sue braccia di bronzo l’uomo che l’aveva inconsapevolmente sposata, infilandole al dito una fede nuziale. In Léone coesistono quindi tre personaggi affini e per certi versi interscambiabili: la Morte, la Musa e la Statua.
La statua vivente è del resto un personaggio che si incontra frequentemente nella poesia di Cocteau: già in Vocabulaire, raccolta pubblicata nel 1922, troviamo un riferimento alla statua assassina:
Mais, sachant les détours de la chair aux statues,
Vénus s’endort debout et se réveille au Louvre.
Elle ne risque rien. Chaque fois qu’elle tue,
C’est seulement mille ans après qu’on la découvre.
Ecco il primo riferimento alla statua vivente, anch’essa assassina. Ma sono piuttosto i versi di Opéra (1927) a pullulare di statue che si animano di nascosto. Nella prima poesia della raccolta, “Par lui-même”, Cocteau spiega attraverso metafore in cosa consiste la creazione poetica; l’impresa è descritta, fra l’altro, come la scoperta “des statues en train d’essayer de marcher”. Questa metafora dota la statua di uno statuto simile a quello della Musa: è dalla visione della statua in procinto di muoversi che nasce la poesia. La statua che uccide è descritta lungamente anche nella prosa intitolata “Le buste”, sempre in Opéra:
Il attendait la nuit noire. Alors, dépliant le lacet dont la sinuosité, sans oublier celle des orbites, de l’arcade sourcilière, des narines, des oreilles, des lèvres, formait ses innombrables profils, dépliant, dis-je, avec méthode, plus longue qu’un fleuve, plus solide que l’acier, plus souple que la soie, cette chose vivante, propre à se mettre en vrille, à percer les murailles, à se glisser sous les portes et par les trous des serrures, attentif (sans perdre de vue son ouvrage) à retenir les moindres nœuds qu’il défaisait et qu’il lui faudrait exactement refaire au retour sous peine de mort, le buste ingénieux et cruel, après avoir traversé plusieurs immeubles nocturnes, étranglait l’homme endormi.
In questo esempio troviamo un modello specifico della statua, il busto, i cui arti sono invisibili ai nostri occhi ma esistono e sono capaci di uccidere. In un’altra composizione di Opéra, “Le théâtre de Jean Cocteau”, il busto di Atena rivela il mistero della statua assassina:
La nuit les statues enfilent des maillots noirs et assassinent les voyageurs. Moi-même je ne suis pas un buste. J’ai des gants et des bas noirs. Ce piédestal est peint sur mon corps.
Questa dichiarazione di Atena sembra quasi riferirsi alla statua del Sang d’un poète: essa è infatti priva degli arti superiori, ma quando si trasforma in una donna in carne ed ossa vediamo le sue braccia coperte da lunghi guanti neri. E in effetti questo film ci dà la conferma di quanto avevamo già intravisto in Léone: la statua, una delle incarnazioni della Morte, investe anche il ruolo di musa ispiratrice. Prima di allontanarci dall’opera poetica per analizzare quella filmica, vediamo ancora due passaggi della successiva raccolta già citata Clair-obscur. L’autore così si rivolge alle Muse:
Vos bras levés en forme d’anse
Votre allure de statues
Supportent un toit de silence
Fait d’œuvres encore tues.
Le nove sorelle sono qui rappresentate come delle cariatidi, nell’atto di sostenere un architrave fatto delle opere a venire.
Essendo ormai chiara l’analogia fra la Statua e la Musa nell’opera poetica, occupiamoci adesso del ruolo fondamentale della Statua nel Sang d’un poète. Interpretata da Lee Miller, compagna di Man Ray, essa svolge il ruolo di guida del Poeta. Alla fine del primo episodio del film, il Poeta risveglia involontariamente la Statua dal suo sonno, poggiando sulle sue labbra la mano destra su cui era apparsa la bocca. Nel secondo episodio la Statua esorta il Poeta a passare attraverso lo specchio: è lei che lo incita ad esplorare il suo mondo interiore, simbolizzato dalle stanze dell’Hôtel des Folies Dramatiques, è grazie al suo invito che la poesia può prendere forma. Ancora una volta, troviamo una corrispondenza fra la funzione della Statua e quella della Musa. Ma il viaggio oltre lo specchio si conclude col primo suicidio del Poeta, di cui la Statua può quindi essere considerata responsabile; di più: la voce che spiega al Poeta la maniera di utilizzare la rivoltella (evidente riferimento, più o meno consapevole, ai suicidi che turbarono Cocteau nella sua giovinezza) è la voce della Statua. Essa è anche l’avversaria del Poeta nella partita a carte del quarto ed ultimo episodio, partita in cui la posta in gioco è la vita. In questo episodio, variazione sul tema topico della partita a scacchi con la morte, la Statua è ancora una volta responsabile della morte del Poeta, che si suicida una seconda volta avendo perso la partita. Se la Statua si rivela anche in questo caso assassina, nelle inquadrature finali del film la vediamo, ritornata di marmo e con le braccia coperte di lunghi guanti neri, fornita dell’accessorio poetico (e più specificamente orfico) per eccellenza: la lira. Ecco esplicitata ancora una volta, se ce ne fosse stato bisogno, la coincidenza delle tre identità, Statua, Morte e Musa, in un solo personaggio femminile, esattamente come abbiamo visto in Léone.
E’ adesso necessario prendere in esame il ruolo del personaggio dell’Angelo, anche questo assolutamente centrale nella poetica di Cocteau, e di cui Léone costituisce per certi versi il doppio femminile. L’Angelo appare assai precocemente nell’opera di Cocteau: figure angeliche possono ritrovarsi nel romanzo Le Potomak, del 1914, e lo stesso protagonista di “Visite” può essere considerato un angelo. Ma è nel 1925, anno della stesura della poesia “L’Ange Heurtebise”, inserita poi in Opéra, che appare una figura specifica di angelo, che ha un nome e un ruolo ben precisi. In Opium, Cocteau ricorda:
Il m’arrivait, très intoxiqué, de dormir d’interminables sommeils d’une demi-seconde. Un jour que j’allais voir Picasso, rue La Boétie, je crus, dans l’ascenseur, que je grandissais côte à côte avec je ne sais quoi de terrible et qui serait éternel. Une voix me criait : « Mon nom se trouve sur la plaque ! » Une secousse me réveilla et je lus sur la plaque de cuivre des manettes : ASCENSEUR HEURTEBISE. Je me rappelle que chez Picasso nous parlâmes de miracle […]. Peu après, l’ange Heurtebise me hanta et je commençai le poème. A ma prochaine visite, je regardai la plaque. Elle portait le nom Otis-Pifre ; l’ascenseur avait changé de marque.
Anche in questo caso, come per “Visite”, è possibile parlare di annunciazione: l’angelo, “descendu du ciel des stupéfiants”, si reca spontaneamente presso il poeta e lo sconvolge con la sua presenza, imponendogli la stesura di un poema. Egli appare sotto le spoglie modernissime e per questo insospettabili di un ascensore, allo stesso modo in cui il soprannaturale si presenta ad Orfeo nelle vesti di un cavallo o di un’autoradio, per insinuarsi più agevolmente nel mondo terreno.
Vero e proprio conduttore di energia poetica, l’Angelo di Cocteau ha poco ha che vedere con gli angeli della tradizione cristiana. Nel Secret professionnel Cocteau tiene a chiarire questa differenza:
L’ange se place juste entre l’humain et l’inhumain. C’est un jeune animal éclatant, charmant, vigoureux, qui passe du visible à l’invisible avec les puissants raccourcis d’un plongeur, le tonnerre d’ailes de mille pigeons sauvages. La vitesse du mouvement radieux qui le compose empêche de le voir. […] Beau spécimen de monstre sportif, la mort lui demeure incompréhensible. Il étouffe les vivants et leur arrache l’âme sans s’émouvoir. […]
Nous voici loin des hermaphrodites en sucre, aux mains jointes, portant d’ailes d’or et lys, coiffés d’étoiles.
Come è spiegato in questo passaggio, l’angelo si trova alla frontiera fra il visibile e l’invisibile, è “le premier front accessible de l’inconnu”. Appartenente all’altro mondo, egli è strettamente legato alla Morte e alle Muse, di cui costituisce per certi versi il messaggero o il soldato (“Ange, soldat des neuf sœurs”). Il poeta e l’angelo hanno un rapporto privilegiato proprio per la loro vicinanza, osiamo dire, geografica. Se l’angelo si trova subito oltre lo specchio, il poeta per come è descritto da Cocteau si trova anche lui a costeggiare il limite, ma dalla parte opposta. Tre citazioni tratte dalla poesia, praticamente omologhe, accostano termini del campo semantico della ricerca ossessiva, del pedinamento, ad altri di quello dell’inconoscibile: “Je décalque / L’invisible (invisible à vous)”, “toujours taquinant le vide”, “ce vide que je longe”. Vocaboli affini sono usati da Orfeo che, sia nella pièce che nel film che portano il suo nome, ripete: “Je traque l’inconnu”. L’angelo e il poeta si incontrano nelle brecce aperte lungo il limite, che permettono il passaggio da un mondo all’altro; proprio come il poeta del Sang d’un poète, che mentre spia dal buco di una serratura si accorge di essere spiato a sua volta.
Non devono sfuggire gli attributi carnali, tipicamente virili dell’angelo: egli viene chiamato “garçon bestial”, “lourd / sceptre mâle”, e le situazioni che vengono illustrate nei versi non mancano di richiamare alla mente alcuni riferimenti squisitamente erotici. La cosa è facilmente giustificabile, se si pensa a Heurtebise come ad una sorta di reincarnazione di Raymond Radiguet: nella poesia ci sono due versi che fanno riferimento a Radiguet in maniera abbastanza esplicita. L’angelo viene descritto con “[les] joues en feu”: Les Joues en feu è giustappunto il titolo della raccolta di versi pubblicata da Radiguet nel 1919 presso la casa editrice fondata da Cocteau e Cendrars. Alla fine della stessa strofa, Heurtebise “tombe fusillé par les soldats de Dieu”; quest’espressione era, a detta di Cocteau, la stessa che avrebbe utilizzato Radiguet a proposito della propria morte: pochi giorni prima di morire egli gli avrebbe confidato: “dans trois jours je vais être fusillé par les soldats de Dieu”. Non essendo possibile parlare di coincidenze, crediamo che Heurtebise sia il nome che Radiguet ha preso da morto.
Anche Cégeste, altro angelo di cui parla la poesia in questione, e che ritroveremo a fianco di Heurtebise in Orphée e nel Testament d’Orphée, sembra avere un corrispondente in questo mondo: si tratta di Jean Le Roy. Un verso in cui si dice che Cégeste è stato ucciso in guerra è l’unica prova che abbiamo per giustificare questa identificazione, ma ci sembra sufficiente dato che Le Roy era già stato “angelizzato”, per così dire, nel Discours du grand sommeil. L’Angelo è allora, nell’immaginario di Cocteau, la figura della bellezza post mortem, di quella bellezza pericolosa che aveva contraddistinto Le Roy e Radiguet, e che si trova ad essere la principale caratteristica del personaggio di Dargelos.
Al di là dei referenti oggettivi che l’angelo nasconde in sé, è comunque chiaro che egli forma con la Morte e la Musa un’unica famiglia, e che il suo ruolo è dunque fondamentale nella nascita della poesia. Cocteau parla spesso di una forza sconosciuta che lo costringe alla produzione artistica, sia essa poetica, cinematografica o altro ancora; questa forza altro non è che l’Angelo. Pensiamo per esempio al Signore Sconosciuto di cui parlano i Sept dialogues, e al tempio dedicato a lui che ha nome Poesia. L’angelo che viene a visitare il poeta si confonde con quella che Cocteau ama chiamare “notte interiore”, e che poco ha a che fare con l’inconscio per come è descritto dagli psicanalisti.
Tout homme est une nuit (abrite une nuit) […], le travail de l’artiste sera de mettre cette nuit en plein jour, et […] cette nuit séculaire procure à l’homme, si limité, une rallonge d’illimité qui le soulage.
La notte interiore è la sede della poesia. Sorta di ghiandola pineale, è una parte di eternità che si nasconde in un corpo mortale, permettendo un legame fra il poeta e l’aldilà. La poesia è tirata fuori dall’angelo che agisce come una levatrice: è frequente in Cocteau l’utilizzo di termini che hanno a che fare col parto quando si parla della realizzazione di un’opera. Se è vero che il poeta rinchiude in sé l’essenza della poesia, che la poesia preesiste alla sua effettiva resa, è però anche vero che perché essa sia rivelata pienamente c’è bisogno di un intervento esterno, è necessario che la poesia riceva uno stimolo proveniente da quello stesso mondo in cui essa trae le sue origini, nonostante sia confinata, come l’anima di Platone, in un corpo che la opprime. Il poeta, la sua coscienza e il suo corpo, non sono che il teatro di un miracolo che lo utilizza spietatamente per i propri fini:
L’inspiration […] n’est qu’expiration, puisqu’il est vrai que le poète reçoit des ordres, mais qu’il les reçoit d’une nuit que les siècles accumulent en sa personne, où il ne peut descendre, qui veut aller à la lumière, et dont il n’est que l’humble véhicule.
Possiamo esemplificare traendo spunto dalle due versioni, teatrale e cinematografica, di Orphée: nella prima, Orfeo riceve i versi che gli causeranno il linciaggio da un misterioso cavallo parlante, venuto non si sa da dove, e che sarà il pretesto per l’approfondimento del suo rapporto con Heurtebise e con la Morte, ovvero con l’altro mondo. Analogamente nel film Orfeo registra i messaggi che sono emessi dall’autoradio della Rolls Royce della principessa, messaggi che provengono direttamente da oltre lo specchio. La radio e il cavallo sono l’elemento esterno di cui abbiamo appena parlato: esterno al poeta ma connaturato, e come suo complice, alla sua notte interiore; camuffato, per potere agire a suo agio, da elemento omogeneo al mondo terreno.
Il poeta ha dunque tutte le carte in regola per potere penetrare nell’altro mondo, di cui risiede nel suo corpo una emanazione. E’ questa la prerogativa del poeta orfico: vivere a cavallo fra due mondi ed essere in fin dei conti estraneo ad entrambi. Nel film Orphée è chiarita l’essenza del rapporto fra il poeta e la morte, di cui la principessa non è che una delle molteplici personificazioni. Orfeo è subito incuriosito da questa donna elegante ed aristocratica, tanto da innamorarsene e da sacrificare per lei il suo rapporto con Euridice. E’ probabilmente in questo che Cocteau si avvicina di più all’interpretazione che fa Maurice Blanchot del mito orfico:
[Orphée] ne veut pas Eurydice dans sa vérité diurne et dans son agrément quotidien, [il] la veut dans son obscurité nocturne, dans son éloignement, avec son corps fermé et son visage scellé, [il] veut la voir, non quand elle est visible, mais quand elle est invisible, et non comme l’intimité d’une vie familière, mais comme l’étrangeté qui exclut toute intimité, non pas la faire vivre, mais avoir vivante en elle la plénitude de sa mort.
Orfeo insomma preferisce, per dirla con Blanchot, essere l’infinitamente morto, farsi l’eroe della rinuncia e perseguire un amore che non può realizzarsi nell’uno né nell’altro mondo. La principessa sarebbe dunque la versione notturna, nascosta di Euridice (e pensiamo anche alla contrapposizione fisica delle due attrici che interpretano i ruoli della principessa e di Euridice, rispettivamente Maria Casarès e Marie Déa), e Orfeo riconosce in lei il marchio di quel soprannaturale di cui è fatta la poesia stessa. Ma l’intimità con la morte non è una prerogativa del solo Orfeo: come vediamo nella sequenza in cui la principessa arriva al Café des poètes, questa saluta e accenna dei gesti di amicizia a tutti i frequentatori del bar. La differenza è che Orfeo sarà reso immortale attraverso il sacrificio della principessa.
Il poeta è dunque dilaniato fra i due mondi, senza potere mai stabilirsi definitivamente in uno dei due, neanche da morto. Cocteau dichiara di essere moralmente “un homme qui boite, un pied dans la vie et un pied dans la mort”, e che questa sua situazione esistenziale lo avvicina automaticamente all’identificazione orfica. Ma la condizione del poeta, sebbene egli sia in relazione privilegiata con delle potenze soprannaturali e superiori, è in ogni caso una condizione dolorosa. L’angelo all’opera, la forza brutale che viene a riportare alla luce la poesia, è sempre descritto come un sadico che infierisce sul poeta senza preoccuparsi minimamente della sua sofferenza, intento solamente a portare a buon termine la sua missione archeologica. Non dimentichiamo che il poeta, per essere tale e raggiungere l’immortalità, deve sottoporsi alla più estrema delle prove: la morte. Nel Sang d’un poète il Poeta muore due volte, entrambe le volte sparandosi alla testa. Nel film Orphée il transito di Orfeo nella Zona avviene dolorosamente, e anche in questo caso egli rimane ucciso da un colpo di pistola. In maniera altrettanto violenta muore il Poeta del Testament d’Orphée, trafitto dalla lancia di Atena. Dunque il poeta non deve solo morire, ma morire violentemente, sanguinare.
Arriviamo in conclusione all’analogia, frequente e centralissima in Cocteau, fra la poesia e il sangue. Anche in questo caso riferimenti abbondanti ed espliciti si trovano nell’opera poetica. Citiamo solo alcuni esempi in ordine cronologico. Nell’ultima strofa di Plain-Chant troviamo la figura del cigno sanguinante:
L’encre dont je me sers est le sang bleu d’un cygne,
Qui meurt quand il le faut pour être plus vivant.
Il cigno è uno dei simboli universalmente riconosciuti del poeta, ma in questo caso si carica di una valenza orfica: come la Fenice, e come il poeta, il cigno sa morire per risorgere in una nuova vita più completa, fino a raggiungere l’immortalità. Il sangue del cigno-fenice è la materia di cui è composta l’opera del poeta orfico. Ma il poeta sa anche ricorrere, se necessario, al proprio sangue: nella poesia “Le paquet rouge” troviamo: “Mon sang est devenu de l’encre. […] Je n’ai jamais exposé que des plaies”. Le poesie che l’autore espone al pubblico sono come il sangue raggrumato ai bordi di una ferita; ferita che non può non ricordarci la bocca nella mano del poeta nel Sang d’un poète, tanto più che Cocteau ama giocare sull’espressione corrente che parla di “lèvres de la blessure”, legando metaforicamente la piaga ad un paio di labbra.
Anche se in un caso ritroviamo la famigerata rivoltella (“Les coups de pistolet, d’où naissent les colombes”), la ferita poetica è più generalmente inferta da un’arma bianca. Qualche esempio da Clair-obscur:
Muses pardonnez-moi mes crises de révolte
Mais il m’arrive d’être las
Et de mal recevoir l’encre que je récolte
D’un cœur assassiné par vos neuf coutelas.
In questo caso l’analogia è evidente: dalle ferite che le Muse hanno aperto esce inchiostro anziché sangue. E una conferma di ciò ci è fornita da un altro verso della stessa raccolta: “C’est du sang que je saigne. / C’est de l’encre qui sort”. Una strofa di un’altra poesia ci dice:
Se poignarder de couteaux
Et par d’étranges fausses plaies
Descendre au fond des seules vraies
Mines de rares métaux.
L’atto di autolesionismo fa parte della linea di condotta ideale del poeta, nella misura in cui le piaghe sono, come lo specchio (e come lo specchio “false”), la porta che bisogna varcare per scendere all’interno di se stessi, seguendo la metafora corrente del minatore, per operare l’introspezione che mette in contatto con la notte interiore che ciascuno porta dentro di sé. Infine, in una parossistica identificazione cristica, la corona di alloro diventa il correlativo della corona di spine:
Muses dans vos sombres usines
Savais-je que vous me feriez
Une couronne de lauriers
Plus féroces que des épines.
Questa analogia ricorrente fra il sangue e l’inchiostro giustifica e prelude all’abbondanza di sangue nel film intitolato, appunto, Le Sang d’un poète. Il sangue è mostrato a più riprese non per soddisfare un certo gusto per lo splatter, ma perché esso è, nel sistema simbolico che abbiamo cercato di ricostruire, la rappresentazione dell’ultimo stadio della creazione poetica, il compimento della missione dell’angelo. Trova giustificazione il frequente riferimento al parto, cui accennavamo sopra. A riprova di questa tesi citiamo un passaggio del Journal d’un inconnu:
Le prestige du sang qui coule est étrange. On dirait qu’une lave de notre feu central cherche à s’y reconnaître. La vue du sang me dégoûte. N’empêche que j’ai intitulé un film Le Sang d’un poète, que j’y montre le sang à plusieurs reprises, et que le thème d’Œdipe, auquel j’ai eu maintes fois recours, est drapé de sang.
On dirait que nous nous vengeons des défenses de l’invisible en cherchant à surprendre les sources rouges qui bouillonnent dans son domaine.
A questo punto possiamo concludere ribadendo i principi che informano lo statuto del poeta orfico, così per come è interpretato da Cocteau. Il poeta orfico è irrimediabilmente attratto dal soprannaturale, da quell’aldilà che riconosce come sede primordiale della poesia. Per questo la sua Musa è la Morte, spesso e volentieri raffigurata come una statua. Essa si avvicina al poeta attraversando le porte del sogno, rappresentate nei film dallo specchio, oppure inviando verso di lui l’Angelo, che possiamo immaginare alle sue dipendenze, e che ha il ruolo di tirare fuori la poesia dalla notte interiore dell’artista. L’annunciazione dell’angelo e la nascita della poesia avvengono in maniera dolorosa, poiché “le poète doit mourir plusieurs fois pour naître”.
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