Dossier:

L'angelo e lo specchio a cura di Enrico Castronovo

Il mito di Orfeo nel cinema di Jean Cocteau
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La morte, la statua, l'angelo: l'identità orfica

Orfeo insomma preferisce, per dirla con Blanchot, essere l’infinitamente morto, farsi l’eroe della rinuncia e perseguire un amore che non può realizzarsi nell’uno né nell’altro mondo. La principessa sarebbe dunque la versione notturna, nascosta di Euridice (e pensiamo anche alla contrapposizione fisica delle due attrici che interpretano i ruoli della principessa e di Euridice, rispettivamente Maria Casarès e Marie Déa), e Orfeo riconosce in lei il marchio di quel soprannaturale di cui è fatta la poesia stessa. Ma l’intimità con la morte non è una prerogativa del solo Orfeo: come vediamo nella sequenza in cui la principessa arriva al Café des poètes, questa saluta e accenna dei gesti di amicizia a tutti i frequentatori del bar. La differenza è che Orfeo sarà reso immortale attraverso il sacrificio della principessa.
Il poeta è dunque dilaniato fra i due mondi, senza potere mai stabilirsi definitivamente in uno dei due, neanche da morto. Cocteau dichiara di essere moralmente “un homme qui boite, un pied dans la vie et un pied dans la mort”, e che questa sua situazione esistenziale lo avvicina automaticamente all’identificazione orfica. Ma la condizione del poeta, sebbene egli sia in relazione privilegiata con delle potenze soprannaturali e superiori, è in ogni caso una condizione dolorosa. L’angelo all’opera, la forza brutale che viene a riportare alla luce la poesia, è sempre descritto come un sadico che infierisce sul poeta senza preoccuparsi minimamente della sua sofferenza, intento solamente a portare a buon termine la sua missione archeologica. Non dimentichiamo che il poeta, per essere tale e raggiungere l’immortalità, deve sottoporsi alla più estrema delle prove: la morte. Nel Sang d’un poète il Poeta muore due volte, entrambe le volte sparandosi alla testa. Nel film Orphée il transito di Orfeo nella Zona avviene dolorosamente, e anche in questo caso egli rimane ucciso da un colpo di pistola. In maniera altrettanto violenta muore il Poeta del Testament d’Orphée, trafitto dalla lancia di Atena. Dunque il poeta non deve solo morire, ma morire violentemente, sanguinare.
Arriviamo in conclusione all’analogia, frequente e centralissima in Cocteau, fra la poesia e il sangue. Anche in questo caso riferimenti abbondanti ed espliciti si trovano nell’opera poetica. Citiamo solo alcuni esempi in ordine cronologico. Nell’ultima strofa di Plain-Chant troviamo la figura del cigno sanguinante:

L’encre dont je me sers est le sang bleu d’un cygne,
Qui meurt quand il le faut pour être plus vivant.

Il cigno è uno dei simboli universalmente riconosciuti del poeta, ma in questo caso si carica di una valenza orfica: come la Fenice, e come il poeta, il cigno sa morire per risorgere in una nuova vita più completa, fino a raggiungere l’immortalità. Il sangue del cigno-fenice è la materia di cui è composta l’opera del poeta orfico. Ma il poeta sa anche ricorrere, se necessario, al proprio sangue: nella poesia “Le paquet rouge” troviamo: “Mon sang est devenu de l’encre. […] Je n’ai jamais exposé que des plaies”. Le poesie che l’autore espone al pubblico sono come il sangue raggrumato ai bordi di una ferita; ferita che non può non ricordarci la bocca nella mano del poeta nel Sang d’un poète, tanto più che Cocteau ama giocare sull’espressione corrente che parla di “lèvres de la blessure”, legando metaforicamente la piaga ad un paio di labbra.
Anche se in un caso ritroviamo la famigerata rivoltella (“Les coups de pistolet, d’où naissent les colombes”), la ferita poetica è più generalmente inferta da un’arma bianca. Qualche esempio da Clair-obscur:

Muses pardonnez-moi mes crises de révolte
Mais il m’arrive d’être las
Et de mal recevoir l’encre que je récolte
D’un cœur assassiné par vos neuf coutelas.

In questo caso l’analogia è evidente: dalle ferite che le Muse hanno aperto esce inchiostro anziché sangue. E una conferma di ciò ci è fornita da un altro verso della stessa raccolta: “C’est du sang que je saigne. / C’est de l’encre qui sort”. Una strofa di un’altra poesia ci dice:

Se poignarder de couteaux
Et par d’étranges fausses plaies
Descendre au fond des seules vraies
Mines de rares métaux.

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