La morte, la statua, l'angelo: l'identità orfica
Basta scorrere la biografia di Cocteau per rendersi conto di quanto precoci e pesanti siano state le sue esperienze con la morte. Quando il poeta non ha ancora compiuto nove anni, subisce il suicidio del padre; Cocteau non ha mai parlato volentieri della sua reazione a questo avvenimento, e questo basta a mostrare quanto esso sia stato incidente nella sua formazione psicologica e, come vedremo, letteraria. Pochi anni dopo, nel 1901, un compagno di scuola muore tragicamente; l’importanza di questa nuova perdita è tale che Cocteau la trasformerà, nel Livre blanc, nella morte di Dargelos. Tralasciamo la morte dei nonni materni, esperienza cui molti bambini sono soggetti in età più o meno precoce, per arrivare ad un avvenimento molto più tragico: il suicidio, quasi davanti agli occhi di Cocteau non ancora ventenne, di un amico durante un viaggio a Venezia. Esperienza tanto più scioccante, in quanto replica della morte del padre, suicidatosi anche lui con un colpo di pistola alla tempia. Un’altra perdita molto sofferta è quella di Jean Le Roy, un giovane scrittore con cui Cocteau aveva instaurato una relazione durante la prima guerra mondiale; Le Roy cade in battaglia durante la fase più tragica del conflitto, meno di un anno dopo avere conosciuto Cocteau. In una lettera ad André Gide questi scrive:
Je vous écris parce que je souffre. On a tué mon ami Jean Le Roy que j’adorais et pour qui j’étais tout… Il était jeune, beau, bon, brave, génial, simple, c’est ce que la mort aime…
Alla memoria di Le Roy sarà dedicato l’anno seguente il Discours du grand sommeil, di cui parleremo tra breve.
Ma tutte queste esperienze di morte, sebbene importantissime dal punto di vista della formazione, possono essere viste, a posteriori, come una lunga e dolorosa preparazione alla morte di Raymond Radiguet, evento davvero capitale nella vita del nostro autore. Come sappiamo, fra Cocteau e l’autore del Diable au corps c’era un rapporto di profondissima amicizia, estremamente produttivo sia dal punto di vista umano che da quello letterario; la morte di questi lasciò un vuoto incolmabile in Cocteau, che non esiterà a cercare un rifugio alla depressione nell’oppio. Quello che ci interessa sottolineare è che a partire dal 1923, anno della scomparsa di Radiguet, la morte e la poesia (intesa come produzione artistica in generale) saranno ormai per sempre strettamente legate nell’universo cocteliano.
A partire dall’analisi tematica di alcuni componimenti poetici è possibile rendersi conto di quale sia l’idea che Cocteau ci offre della morte e dell’aldilà, e di come la questione dell’ispirazione e della nascita della poesia, nucleo minimo fondamentale del ciclo orfico, sia centrale nella sua poetica. Potremo inoltre vedere che i temi che incontreremo più frequentemente sono trasposti in maniera fedele nei film di cui ci occupiamo; sarà allora possibile stabilire lo statuto del poeta orfico, identità che Cocteau ha ricercato e raggiunto sin dagli albori della sua carriera artistica.
Il primo testo che prendiamo in considerazione è “Visite”, pagina di prosa poetica inserita nella raccolta di versi intitolata Discours du grand sommeil: scritte fra il 1916 e il 1918, le poesie confluite in questa silloge costituiscono una riflessione sulla guerra e sul dolore che essa occasiona. Questo testo contiene in nuce molte delle idee sulla morte e sull’aldilà che saranno sviluppate in seguito. In “Visite” la voce che parla è quella di un uomo morto in guerra da poco tempo che viene a visitare l’autore per annunciargli la sua scomparsa; questo personaggio è evidentemente una trasfigurazione della persona reale di Jean Le Roy. Il testo si apre su queste parole:
J’ai une grande nouvelle triste à t’annoncer: je suis mort. Je peux te parler ce matin, parce que tu somnoles, que tu es malade, que tu as la fièvre.
Già nell’incipit il narratore ci spiega come sia possibile una comunicazione fra un vivo e un morto: grazie al sonno, effetto in questo caso della malattia. Il sonno (e il sogno) permettono a chi dorme di abbandonare il proprio corpo e con esso le tre dimensioni entro le quali i viventi sono costretti, per dissolversi in uno spazio-tempo differente. A conferma ed esplicazione di questa idea, possiamo citare le prime due strofe di una poesia pubblicata nel 1954:
Rien ne cesse rien n’est les morts ne sont pas morts
Les vivants s’imaginent vivre
Un acte continue où l’on ne peut le suivre
Rien n’est dedans rien n’est dehors.
Rien ne pèse tout pèse et notre marche lourde
Est légère dans le sommeil
Aveugles sont nos yeux et nos oreilles sourdes
Dans un monde au rêve pareil.
Nel sonno si perde la coscienza del proprio corpo per perdersi in un corpo unico e diffuso, dove le dimensioni non esistono perché la percezione non soffre limiti. Lo stesso ci viene detto dal visitatore a proposito della condizione di un morto:
J’étais une eau qui avait la forme d’une bouteille et qui jugeait tout d’après cette forme. Chacun de nous est une bouteille qui imprime une forme différente à la même eau. Maintenant, retourné au lac, je collabore à sa transparence. Je suis Nous. Vous êtes Je.
Ecco dunque come il sonno e la morte arrivano ad equivalersi, trovando il loro punto di incontro nella perdita degli assi (tri)dimensionali.
L’equivalenza fra il regno di Morfeo e quello della Morte è suggerita anche in una delle prime sequenze del film Orphée: quando la Principessa si trova con Orfeo nello chalet dove si consumerà la morte di Cégeste, alcuni scambi di battute non lasciano dubbi:
LA PRINCESSE – Dormez-vous debout? (Elle monte les escaliers.)
ORPHEE – Je le crois.
E ancora, più avanti:
LA PRINCESSE – Décidément, vous dormez.
ORPHEE – Oui… oui… je dors… C’est très curieux.
[…]
ORPHEE – Enfin, madame… m’expliquerez-vous ?
LA PRINCESSE – Rien. Si vous dormez, si vous rêvez, acceptez vos rêves. C’est le rôle du dormeur.
La principessa è talmente coinvolta nel modo di sentire umano che arriva quasi a percepire il tempo nella stessa maniera in cui lo percepiscono gli uomini, al contrario di Cégeste che, sebbene morto da poco si trova già a suo agio nel nuovo modello percettivo.
E’ interessante notare come questa concezione del tempo, e delle differenti maniere di percepirlo, si ripresenti in un’opera parimenti distante dal Discours du grand sommeil e dai film quale La Machine infernale. Attraverso una metafora ardita ma calzante, Anubis spiega la differenza fra il tempo vissuto dagli uomini e la vita degli uomini vista dagli dei:
ANUBIS, il montre la robe de Sphinx. – Regardez les plis de cette étoffe. Pressez-les les uns contre les autres. Et maintenant, si vous traversez cette masse d’une épingle, si vous enlevez l’épingle, si vous lissez l’étoffe jusqu’à faire disparaître toute trace des anciens plis, pensez-vous qu’un nigaud de campagne puisse croire que les innombrables trous qui se répètent de distance en distance résultent d’un seul coup d’épingle ?
LE SPHINX – Certes non.
ANUBIS – Le temps des hommes est de l’éternité pliée. Pour nous, il n’existe pas. De sa naissance à sa mort la vie d’Œdipe s’étale, sous mes yeux, plate, avec sa suite d’épisodes.
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