Dossier:

L'angelo e lo specchio a cura di Enrico Castronovo

Il mito di Orfeo nel cinema di Jean Cocteau
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La morte, la statua, l'angelo: l'identità orfica.

Tutto quello che è stato detto per il tempo è altrettanto valido per lo spazio. Basti pensare al topos tipicamente cocteliano del passaggio attraverso lo specchio: quella che appare come una superficie solida è in realtà una porta, facilmente attraversabile per chi sa dove essa conduce, attraverso la quale gli abitanti dell’aldilà vanno e vengono a loro agio. Possiamo inoltre trovare moltissimi esempi di infrazione alle norme dimensionali nei film: Heurtebise appare e scompare a suo piacimento, facoltà che gli è invidiata da Cégeste che non si è ancora abituato alla nuova corporeità. Allo stesso modo appare e scompare il poeta del Testament d’Orphée, che si dichiara “égaré dans l’espace-temps”. Inversamente, un’inquietante difficoltà di movimento impaccia ugualmente i gesti di Orfeo nel suo viaggio illecito nella Zona, e quelli del protagonista del Sang d’un poète alle prese con le visioni dell’Hôtel des Folies Dramatiques. Il professore del Testament, interpellato come testimone nel processo al poeta che ha luogo nell’aldilà, dichiara: “J’éprouve… comme une difficulté d’être… une manière de fatigue…”. E ancora, pensiamo alla sequenza di Orphée in cui il protagonista cerca invano di raggiungere la principessa, che scompare dietro l’arcata di un portico per riapparire da un’altra. Come abbiamo già spiegato, l’incontro fra due abitanti dei due mondi non avviene che in situazioni rare e specifiche.
Ritorniamo adesso alla poesia per analizzare gli spunti offerti da un componimento redatto fra il 1942 e il 1944, in piena guerra: Léone. Come “Visite”, questo poema racconta l’incontro del poeta con un’enigmatica figura che lo viene a visitare nel suo mondo, per accompagnarlo stavolta in uno strano viaggio. Anche in questo caso il sogno è il fattore propiziatore, come ci è detto già dal primo verso: “C’est la nuit du vingt-huit que je rêvai Léone.”; o ancora: “Le rêve était en moi comme Léone en lui”15, “Ainsi je marche en l’air selon la loi du songe”. Léone, che dota il poeta della facoltà di muoversi fuori del tempo e dallo spazio, che lo conduce lungo i corridoi del sogno per mostrargli da lontano la vita degli abitanti della terra, colti nella ripetizione dei loro gesti quotidiani, altro non è se non una delle figure della morte. Non è dunque casuale se la Morte si presenta al poeta insinuandosi nel suo sonno.
Ma, oltre alla conferma dell’equivalenza fra morte e sonno, due passaggi di Léone ci spingono a trovare in questo personaggio soprannaturale altre identità e prerogative: nel primo verso di una delle ultime strofe l’autore si rivolge a Léone chiamandola “Muse de mon réveil”. Questo epiteto rende esplicita l’identificazione fra la Morte e la Musa, entrambe personificazioni della Poesia: il poeta, per essere tale, deve farsi frequentatore dell’altro mondo, “[il] doit seulement s’efforcer de sur-vivre, c’est-à-dire de marivauder – légèrement et gravement à la fois – avec sa propre mort”. Del resto, già in “Visite” trovavamo questa analogia esplicitata in maniera chiarissima:

La poésie ressemble à la mort. Je connais son œil bleu. Il donne la nausée. Cette nausée d’architecte toujours taquinant le vide, voilà le propre du poète. Le vrai poète est, comme nous, invisible aux vivants. Seul, ce privilège le distingue des autres. Il ne rêvasse pas : il compte. Mais il avance sur un sable mouvant et, quelquefois, sa jambe enfonce jusqu’à nous.

Questo passaggio tocca molti altri punti su cui torneremo a breve, ma stabilisce perentoriamente il legame fra morte e poesia.
Prima di approfondire la questione del rapporto fra il poeta e la (propria) morte, è necessario stabilire un’altra identificazione, proposta anch’essa da due versi di Léone. In una strofa in cui l’autore descrive l’andatura della protagonista leggiamo:

Ainsi le Commandeur ébranlait le terrain
Ainsi la Vénus d’Ille et sa marche d’airain…

Attraverso il riferimento a due notissimi personaggi della letteratura francese, ovvero il Commendatore di pietra che si reca al banchetto offertogli da Don Giovanni, e la Venere di bronzo del celebre racconto di Mérimée, Léone è paragonata ad una statua. Ma gli esempi che Cocteau riporta non sembrano essere stati scelti casualmente, dato che si tratta in entrambi i casi di statue assassine: la statua del Commendatore è quella che annuncia a Don Giovanni la sua dannazione eterna, spingendolo fra le fiamme degli inferi; la statua di Mérimée a sua volta stritola fra le sue braccia di bronzo l’uomo che l’aveva inconsapevolmente sposata, infilandole al dito una fede nuziale. In Léone coesistono quindi tre personaggi affini e per certi versi interscambiabili: la Morte, la Musa e la Statua.
La statua vivente è del resto un personaggio che si incontra frequentemente nella poesia di Cocteau: già in Vocabulaire, raccolta pubblicata nel 1922, troviamo un riferimento alla statua assassina:

Mais, sachant les détours de la chair aux statues,
Vénus s’endort debout et se réveille au Louvre.
Elle ne risque rien. Chaque fois qu’elle tue,
C’est seulement mille ans après qu’on la découvre.

Ecco il primo riferimento alla statua vivente, anch’essa assassina. Ma sono piuttosto i versi di Opéra (1927) a pullulare di statue che si animano di nascosto. Nella prima poesia della raccolta, “Par lui-même”, Cocteau spiega attraverso metafore in cosa consiste la creazione poetica; l’impresa è descritta, fra l’altro, come la scoperta “des statues en train d’essayer de marcher”. Questa metafora dota la statua di uno statuto simile a quello della Musa: è dalla visione della statua in procinto di muoversi che nasce la poesia. La statua che uccide è descritta lungamente anche nella prosa intitolata “Le buste”, sempre in Opéra:

Il attendait la nuit noire. Alors, dépliant le lacet dont la sinuosité, sans oublier celle des orbites, de l’arcade sourcilière, des narines, des oreilles, des lèvres, formait ses innombrables profils, dépliant, dis-je, avec méthode, plus longue qu’un fleuve, plus solide que l’acier, plus souple que la soie, cette chose vivante, propre à se mettre en vrille, à percer les murailles, à se glisser sous les portes et par les trous des serrures, attentif (sans perdre de vue son ouvrage) à retenir les moindres nœuds qu’il défaisait et qu’il lui faudrait exactement refaire au retour sous peine de mort, le buste ingénieux et cruel, après avoir traversé plusieurs immeubles nocturnes, étranglait l’homme endormi.

In questo esempio troviamo un modello specifico della statua, il busto, i cui arti sono invisibili ai nostri occhi ma esistono e sono capaci di uccidere. In un’altra composizione di Opéra, “Le théâtre de Jean Cocteau”, il busto di Atena rivela il mistero della statua assassina:

La nuit les statues enfilent des maillots noirs et assassinent les voyageurs. Moi-même je ne suis pas un buste. J’ai des gants et des bas noirs. Ce piédestal est peint sur mon corps.

Questa dichiarazione di Atena sembra quasi riferirsi alla statua del Sang d’un poète: essa è infatti priva degli arti superiori, ma quando si trasforma in una donna in carne ed ossa vediamo le sue braccia coperte da lunghi guanti neri. E in effetti questo film ci dà la conferma di quanto avevamo già intravisto in Léone: la statua, una delle incarnazioni della Morte, investe anche il ruolo di musa ispiratrice. Prima di allontanarci dall’opera poetica per analizzare quella filmica, vediamo ancora due passaggi della successiva raccolta già citata Clair-obscur. L’autore così si rivolge alle Muse:

Vos bras levés en forme d’anse
Votre allure de statues
Supportent un toit de silence
Fait d’œuvres encore tues.

Le nove sorelle sono qui rappresentate come delle cariatidi, nell’atto di sostenere un architrave fatto delle opere a venire.

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