8.2 "L'evento del secolo"
8.2.1 Il mito di Via Veneto
Via Veneto si afferma come cuore mondano e intellettuale di Roma durante il periodo fascista. Negli anni cinquanta l'intellighenzia romana se ne impossessa e vi siede in permanenza. Al caffè Rosati si incontrano De Feo, Talarico, Flaiano, Panunzio e altri. Nel bar si possono ascoltare con largo anticipo le polemiche sugli avvenimenti culturali che solo dopo qualche giorno verranno a conoscenza dell'Italia sulle colonne de Il Mondo e de L'Espresso. Sull'altro marciapiede da Strega o da Doney vivacchia la gente del cinema. Durante le nottate infinite si discute delle anteprime e dei progetti futuri, delle critiche e dei pettegolezzi.
L'esplosione della vita notturna coincide con l'agonia e la morte di Papa Pacelli, avvenuta il 9 ottobre 1958, che non amava questo tipo di manifestazioni e che, si dice, le avesse sempre osteggiate. Coincide anche con il boom dei giornali scandalistici che mitizzano via Veneto e la rendono così famosa da attrarre curiosi e esibizionisti.
Lo spettacolo di quelle sere si insinua nella mente di Fellini e conquista facilmente i suoi collaboratori alla sceneggiatura: Flaiano, che frequenta da tempo immemorabile la via, e Pinelli.
L'idea si innesta su di un precedente copione mai realizzato Moraldo in città che parlava dell'iniziazione alla vita corrotta della capitale di un provinciale; una specie di diario dei primi anni a Roma di Fellini. L'atmosfera di via Veneto determina un cambiamento in Fellini che sull'idea base sovrappone l'intenzione di "dare un ritratto di questa società dei caffè che folleggia tra l'erotismo, l'alienazione, la noia e l'improvviso benessere. [..] Il film avrà per titolo La dolce vita e non ne abbiamo scritto ancora una riga." Questa affermazione di Flaiano, scritta nel giugno del 1958 smentisce le voci che attribuiscono a Fellini indecisione sulla scelta del titolo che fin dal primo momento è definitivo.
Via Veneto rappresenta, d'altro canto, per Flaiano un pezzo importante della sua vita e l'amarezza del film è anche la sua quando commenta il cambiamento avvenuto negli ultimi anni così: "Com'è cambiata dal '50, da quando vi arrivavo a piedi ogni mattina, attraverso Villa Borghese e mi fermavo alla libreria di Rossetti, con Napolitano, Bartoli, Saffi, Brancati, Maccari e il poeta Cardarelli. [..] c'era una gaia animazione paesana, giornalisti e scrittori prendevano l'aperitivo. [..] Come può cambiare una strada! Ora che sta arrivando l'estate salta agli occhi che questa non è più una strada, ma una spiaggia. [..] Anche le conversazioni sono balneari, barocche e scherzose, e si riferiscono a una realtà esclusivamente gastro-sessuale."
Sentimenti non dissimili dovevano appartenere a Fellini anche se, dai tempi del matrimonio, non era più stato un vero protagonista della mondanità romana.
Dopo il consueto walzer dei produttori, il film è tra le mani di Peppino Amato che cerca, inutilmente, di trovare una parte per la propria amante, la famosa attrice statunitense Linda Darnell, nel film. Le finanze di Amato non bastano a coprire le spese che continuano a lievitare. A questo punto entra in gioco Angelo Rizzoli che inizia un simpatico rapporto con il regista romagnolo.
La composizione del cast è altrettanto lunga e faticosa. Dopo aver scelto come protagonista Marcello Mastroianni, preferito anche a Paul Newman, Fellini si sbizzarrisce nella ricerca dei volti giusti. Vorrebbe Elio Vittorini nella parte di Steiner, ma non riesce a convincerlo. Trova invece un perfetto alter ego di suo padre: l'attore Annibale Ninchi che ricoprirà lo stesso ruolo in Otto e mezzo. Nel cast entra anche il nuovo fenomeno del rock and roll italiano: Adriano Celentano. Il rock and roll è arrivato nell'Italia solo nel 1956 e la notorietà di Elvis Presley, rimbalzata ormai in tutto il mondo, e quindi anche nella nostra penisola, ha lanciato definitivamente questo genere musicale. Sulla falsariga di questo successo anche in Italia si impongono i cosiddetti urlatori come Tony Dallara e il già citato Celentano.
Intanto a Milano l'amico Rinaldo Geleng gli ha trovato una ragazza che è perfetta per interpretare il ruolo di Maddalena. La ragazza è la milanese Adriana Botti, ricchissima ereditiera che viveva esattamente come il personaggio cinematografico che doveva proporre sul grande schermo e cioè "praticando il libero amore e sdrogacchiandosi." Tutto salta al momento della stesura del contratto per via delle richieste onerose della giovane (50 milioni) dovute alla minaccia del padre di diseredarla qualora si fosse messa a recitare e per via della provocatoria controproposta di Fellini che è stata di sole 75.000 lire e che ha provocato l'interruzione delle trattative.
L'ultima importante scelta è stata quella di Anita Ekberg, la bellissima attrice svedese che rappresentava agli occhi del regista il simbolo della donna. L'attrice era da tempo protagonista delle cronache rosa italiane e alcuni degli episodi mostrati nel film sono tratti da avvenimenti che le sono realmente accaduti.
Le riprese del film, che si annuncia subito come un evento straordinario, diventano immediatamente meta continua di visitatori, di curiosi, fino ad entrare nella vita mondana della città. L'atmosfera festaiola raggiunge il suo culmine durante le riprese del bagno della Ekberg nella fontana di Trevi. L'episodio entra talmente nella storia del costume della capitale che Ettore Scola ne inserirà una ricostruzione nel suo film C'eravamo tanto amati (1974). Fellini ricorda che per girare quella scena furono necessarie otto o nove notti e che i proprietari delle case che davano sulla piazza avevano affittato ai curiosi balconi, finestre e terrazzi. Alla fine di ogni ciak la gente poi manifestava la sua approvazione urlando. Tutta la città vuole ammirare con i propri occhi la prorompente bellezza di Anita Ekberg. L'entusiasmo per l'attrice svedese è così alto che, durante un esterno a Tor di Schiavi, scoppiano tumulti quando la folla di curiosi accorsa scopre che lei non prende parte alle riprese che si stanno girando.
8.2.2 Più che un successo
Dopo aver visionato l'immenso materiale girato Fellini appronta una copia campione che viene vista solo dai due produttori: Rizzoli e Amato. I due sconvolti, racconta Fellini, sembra che abbiano telefonato al presidente della Titanus, Goffredo Lombardo, nel corso della notte per cercare di svendere il film.
Si giunge così alla tanto attesa anteprima romana presso il cinema Fiamma. Alla conclusione solo venti secondi di applausi e qualche isolato fischio. L'interesse reale è solo per Anita Ekberg, presente in sala. Tutti gli occhi sono puntati su Milano, piazza difficile dove la serata di presentazione è fissata per il 5 febbraio 1960 al cinema Capitol. Sul film, intanto, pende fin da principio la spada di damocle della censura, particolarmente attiva in quell'anno come dimostrano i brutali tagli apportati ad un'altra pellicola fondamentale del decennio Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Tutto è, però, filato liscio in quanto ancora una volta l'intervento di padre Arpa ha consentito di superare i veti. La pellicola era stata già mostrata al cardinale Siri che aveva concesso il suo benestare. Tuttavia solo quando il gesuita ha scritto una lettera autografa al Presidente Gronchi in cui si diceva che Siri aveva approvato il film, la censura ha dato il suo permesso classificando l'opera sotto la dicitura "adulti con riserva".
La prima milanese è, invece, un disastro. Il pubblico, probabilmente prevenuto dalla campagna scandalistica montata precedentemente, comincia ad agitarsi e a rumoreggiare. Alla fine solo qualche applauso convinto e molte grida di protesta. Qualcuno apostrofa Mastroianni come comunista, una persona sputa addosso a Fellini.
La stampa segue passo passo le vicende del film. Il 5 febbraio, giorno dell'anteprima e vigilia dell'uscita dell'opera nelle sale, molti quotidiani commentano La dolce vita grazie alla visione riservata per i critici avvenuta il giorno prima. I commenti sono tiepidi ma sufficientemente positivi. Piero Santi, dalle colonne del Giornale del mattino di Firenze, afferma che "non è un gran film, ma un film buono". Tommaso Chiaretti è convinto che il crepuscolarismo è la vera strada poetica di Fellini che "altrove aveva imboccato male, dalla parte del misticismo, cioè, dalla parte cieca." Ma anche al critico del Paese appare evidente che ci si trova di fronte ad "una delle opere più nuove e, in un certo senso, rivoluzionarie del cinema mondiale degli ultimi anni". L'eccezionalità dell'avvenimento è colto da tutti i cronisti. Su La Nazione del 6 febbraio si dice, riferendosi al neologismo derivato da I vitelloni, che "l'espressione La dolce vita ha avuto un'accoglienza ancora più immediata: la si usa oralmente e per iscritto già da mesi, e il film di Fellini non è uscito che ieri." Il giornalista lo definisce il capolavoro del regista, "una delle tre o quattro opere più forti del cinema italiano."
La dolce vita sconvolge tutti, suscita amore, odio, risentimento, preoccupazione; rende obsoleto ogni precedente concetto del cinema, spazza via il neorealismo al punto che Rossellini, che lo considerava una sua creatura, rompe ogni rapporto con Fellini che era il suo allievo prediletto, oltre che grande amico.
Comunque l'anteprima milanese ha confermato le pessimistiche previsioni per l'esito commerciale del film che, non dimentichiamoci, era al tempo il più costoso mai prodotto in Italia. Il 6 febbraio, dunque, Fellini si reca a pranzo senza farsi eccessive illusioni per gli incassi della giornata. Quando fa ritorno al cinema Capitol si trova, invece, davanti ad uno spettacolo imprevedibile. La folla ha sfondato le porte del cinema, tutti vogliono vedere il film prima che venga sequestrato e quelli che non riescono ad entrare protestano calorosamente. E' l'inizio di un trionfo che porterà La dolce vita ad essere il campione d'incassi del 1960 con oltre 2 miliardi di ricavato, una cifra che, rivalutata al 1993, supera i 113 miliardi di lire.
|