8.2.3 "La schifosa vita"
Le reazioni dei perbenisti non si fanno attendere. La prima interrogazione parlamentare è del 9 febbraio da parte di un deputato missino che stigmatizza "l'offesa palese alle virtù e alla probità della popolazione romana e la banale canzonatura dell'alta missione di Roma quale centro del cattolicesimo e di antiche civiltà." A questa interrogazione ne fanno seguito altre di esponenti della democrazia cristiana. Lo stesso giorno ha inizio la campagna di stampa denigratoria de L'Osservatore Romano, quotidiano della santa sede, che in un corsivo senza firma (opera forse del suo direttore il conte Della Torre) intitolato "Basta!" afferma che: "il male, il delitto, il vizio ostentato sugli schermi, sviscerato nella sua psicologia [..] è incentivo al male, al delitto, al vizio; ne è propaganda". L'articolo prosegue con un violento attacco alla critica che ha lodato il film e conclude con un appello, richiamandosi ai Basta! pronunciati nella serata dell'anteprima, che richiamano al loro dovere i pubblici poteri "cui compete e la sanità del costume, e il rispetto al buon nome di un popolo civile".
La reazione del quotidiano vaticano è l'espressione dell'intervento della parte più retriva del mondo ecclesiastico che si esprime in varie circostanze. Dopo l'intervento di padre Arpa presso il cardinale Siri, di cui abbiamo già detto, sembrava che tutto fosse chiarito. Il film dalla categoria "vietato per tutti" era passato in quella "adulti con riserva"; inoltre era stato proiettato presso il centro S. Fedele, centro culturale gesuita, dove era stato accolto con grande interesse; Arpa era, infine, riuscito a fissare un incontro tra Fellini e il cardinale Montini, il futuro Paolo VI. Il 9 febbraio esce, improvvisamente, l'articolo che abbiamo già citato: è il segnale che la cosiddetta "nobiltà nera" del Vaticano, la componente più reazionaria del mondo ecclesiastico, ha ripreso il controllo della situazione in modo deciso. Immediatamente la stampa cattolica si adegua al clima retrivo facendo una clamorosa marcia indietro rispetto alle opinioni già espresse. Il giorno stesso, infatti, Il Quotidiano organo dell'Azione Cattolica, che pure aveva pubblicato una recensione favorevole della Dolce vita, si allinea alle posizioni romane. Il CCC reagisce riportando il film nella categoria delle pellicole "escluse per tutti". L'intervento diretto della Segreteria di Stato Vaticana ha, dunque, probabilmente costretto Siri, da cui dipendevano sia il CCC che l'Azione Cattolica, a togliere la sua approvazione all'opera di Fellini. Anche Montini obbedisce all'aut-aut annullando l'incontro previsto con il regista romagnolo. Il film viene anche attaccato dalla Giunta Araldico-Genealogica del Corpo della Nobiltà Italiana, che deplora il conte Odescalchi per aver affittato il Castello di Bassano di Sutri. Vengono anche deplorati i nobili che figurano nel film come comparse proprio nell'episodio della festa nel palazzo Odescalchi. Alcuni di loro rispondono su un settimanale dicendo, a mo' di scusa, di essere stati imbrogliati dal regista che aveva spiegato loro la scena e i dialoghi in modo diverso da come sono stati poi mostrati sullo schermo. Fellini risponde il giorno dopo in una conferenza stampa a Firenze affermando di non aver ingannato nessuno e che tutti erano a conoscenza della parte e di non aver "dato loro a credere nulla di diverso".
Le polemiche non sono ancora finite. Un lettore del foglio vaticano invita le autorità competenti a incriminare Anita Ekberg per uso abusivo dell'abito talare a causa di un costume che ricorda molto la tonaca dei sacerdoti.
Il successo ormai inarrestabile della pellicola spinge gli ambienti ecclesiastici a rincarare la dose contro Fellini e chi, all'interno della Chiesa, osa appoggiarlo. Se, infatti, le proteste di alcuni parlamentari non ottengono risultati in quanto il governo, per bocca del sottosegretario Magrì, non intende prendere alcun provvedimento contro il film; durissima è invece la repressione nel mondo religioso. L'Osservatore Romano affida gli attacchi alla pellicola a otto articoli che ribattezzano La dolce vita in Schifosa vita. In uno di questi, pubblicato il 10 marzo, Cinecittà diventa la città dantesca di Dite e si spiega come la vera arte "è chiara, schietta, non induce in equivoco .. vale per tutti [..] è l'arte su cui non s'affatica, non si contorce la distinzione tra l'artista che indulge al male, sino a compiacersene si da incitare altrui al delitto, e l'artista che invece vi insinua tutto il proprio sdegno per sdegnare gli altri." Concordemente il resto della stampa cattolica ammonisce a considerare il giudizio del Centro Cattolico Cinematografico, che aveva classificato La dolce vita "escluso per tutti", come un giudizio normativo sulla coscienza dei fedeli.
Questi articoli aggrediscono in modo particolare due gesuiti: padre Angelo Arpa e padre Nazareno Taddei. A padre Arpa, vittima degli strali dell'Osservatore Romano, viene imposto un anno di silenzio per l'appoggio dato alla pellicola.
Anche la vicenda di padre Taddei è significativa. Taddei è uno dei responsabili del Centro San Fedele e del periodico, ad esso collegato, Letture che pubblica nel mese di marzo una sua valutazione de La dolce vita. La firma di Taddei non è certo una novità per il cinema italiano che lo ha potuto apprezzare per gli importanti contributi critici apparsi su molte riviste specializzate tra cui Bianco e nero. Taddei riceve l'incarico dai suoi superiori di fare una lettura ponderata del film di Fellini. Dopo una serie di colloqui con il regista, Taddei scrive la sua critica che pone al vaglio di altri sette gesuiti che approvano il testo dopo l'attenta analisi di ogni singolo periodo.
L'articolo esce nel mese di marzo ed esprime una valutazione complessivamente positiva del film anche se "è da destinare a visioni limitate o almeno a persone opportunamente preparate". Come si vede il giudizio si allinea alla posizione espressa inizialmente dal CCC stesso che lo aveva momentaneamente catalogato come "solo per adulti". Nonostante sia evidente la condanna per il comportamento dei protagonisti, espressa da Taddei e dal regista, le reazioni a questo pezzo sono furibonde. Su Scena Illustrata ci si stupisce che padre Taddei non capisca che il film raggiunge finalità comuniste, "nel senso che fa il giuoco della propaganda comunista in un paese non comunista". Secondo il giornalista La dolce vita e la stampa che difende la pellicola costituiscono "un ulteriore e efficace contributo a far dilagare il male" in quanto, prosegue, è facile intuire che le masse sono attratte da "dannosi e morbosi compiacimenti". L'Osservatore Romano rincara la dose affermando che: "Si dice che l'autore di codesta fatica sia un religioso. Ma se ne dicono tante! Quante, come si vede, ne dicono i religiosi.
Gli attacchi continuano attraverso le massime autorità ecclesiastiche. Al Centro S. Fedele giunge, infatti, anche una lettera del cardinal Montini in cui si dice: "sono costretto a deplorare l'esaltazione che il rev. Taddei fa del film La dolce vita. La sua apologia rompe l'argine del nostro popolo alla dilagante immoralità delle scene". Alla dura reprimenda fanno seguito una chiarificazione che Letture pubblica nel luglio dello stesso anno e una serie di provvedimenti punitivi nei confronti di padre Bressan, direttore del periodico, che viene trasferito e di padre Taddei che viene spedito all'estero per essere, una volta rientrato in patria, delegato ad incarichi di diversa natura.
Nel frattempo il film è giunto al XIII Festival di Cannes dove è iscritto in concorso. La giuria, presieduta da Georges Simenon, lo premia con il massimo riconoscimento: la Palma d'oro. Non giunge, invece, l'Oscar per il miglior film straniero che va ad appannaggio di un'opera di Bergman. L'ambita statuetta viene vinta, però, da Piero Gherardi per la migliore scenografia. La cosa non colpisce più di tanto Fellini che, d'altro canto, sta riscuotendo successo in tutto il pianeta facendo divenire la fontana di Trevi e via Veneto tappa irrinunciabile dei turisti di tutto il mondo. L'impatto del film è talmente forte che riesce a modificare il linguaggio facendo entrare nei vocabolari di tutto il mondo neologismi come dolcevita e paparazzo.
Oltre alla disapprovazione di Rossellini, l'ultima fatica felliniana scontenta molta parte della cinematografia italiana scesa in campo a fianco dell'autore riminese più per reazione verso la capziosa campagna moralizzatrice che per reale solidarietà verso Fellini. Altri due maestri del cinema italiano lasciano trapelare la loro insofferenza con alcuni frasi significative. De Sica considera Fellini un regista geniale ma ritiene che non sia mai riuscito a liberarsi "da un modo di vedere le cose un tantino cafone." Di Visconti si riporta, nel corso dello stesso articolo, una sua dichiarazione in cui afferma che i nobili di Fellini erano i nobili visti dalla sua donna di servizio. Pinelli ricorda anche furiose discussioni con il regista Pietro Germi che disapprovava La dolce vita. Ancora nel dicembre del sessanta, d'altro canto, Flaiano scrive che spesso incontrava qualcuno che gli rimproverava di aver collaborato a mostrare Roma come una sentina di vizi.
E' evidente, insomma, che Fellini ha toccato un nervo scoperto della Roma di quegli anni che stava vivendo un periodo di splendore che "mascherava una certa putrefazione o perlomeno un'inquietudine." La vita di quella parte del mondo capitolino è stata comunque resa in modo edulcorato rispetto alla realtà di quei giorni. L'aristocrazia rappresentata era un ritratto quasi nostalgico della nobiltà romana che è, secondo Zapponi, tra le più grette, meschine, papaline e reazionarie. Non sorprende quindi l'alzata di scudi dopo l'uscita del film.
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